IL SIEGFRIED DI VICK A PALERMO

(Salvatore Aiello)

Wanderer – Thomas Gazheli e Mime – Peter Bronder

Il mito di Siegfried abita la fantasia di Richard Wagner sin dal 1848, quando nasce  la necessità di attingere e di ispirarsi al mondo delle antiche leggende nordiche per sostenere quell’impegno che l’animava e cioè di dare alla Germania e al mondo intero una idea nuova, riformatrice dell’Opera. Opera und drama del 1851 è il  testo della sua nuova poetica che si impernia in tre termini indissolubilmente legati: Wort, Ton, Drama la cui totale sintonia assolve l’oneroso impegno di creare e regolare un nuovo operismo in cui parola, suono e dramma costituiscono un tutt’uno nella mente e nel cuore del compositore. Siegfreid, terza giornata del Ring, obbedisce dopo tanta fatica e laboriosa genesi, ad un dettato preciso in cui musica e parola interagiscono nella scena per la comprensione della vicenda drammatica, nella quale il mito si accampa sulla Storia. Segnata dal travaglio intellettuale di Wagner, dimidiato protagonista di avventure personali e di momenti storici particolarmente travagliati inerenti la sua adesione alle agitazioni socialiste del ‘48, la filosofia di Schopenhauer prima e di Nietzsche poi, opportunista cultore di rapporti intriganti anche con Ludwig II, l’opera vedrà finalmente la luce nel 1876, con il completamento del terzo atto dopo Tristano Isotta e I Maestri Cantori di Norimberga. Queste le premesse per supportare in qualche modo il nostro punto di vista che non può non tenere in debito conto quanto il Cantore di Lipsia, nel suo megalomane progetto, ha lasciato ai posteri e al dibattito tormentato dei critici che ha visto tra detrattori e sostenitori personalità quali Schumann, Hanslick,  Baudelaire, Berlioz, Nietzsche, Adorno, Milhaud, solo per citarne alcuni. Il Massimo di Palermo ha ripreso il progetto Tetralogia iniziato nella Stagione 2013 con Das Rheingold e Die WalKüre, mandando in scena il Siegfried e affidandolo ancora una volta alla regia di Graham Vick. Sosteniamo da tanto tempo che assolutamente non siamo dei passatisti né incapaci di scorgere l’interessante e il nuovo, quando vi circolano idee intelligenti, pensose che però vivano del rispetto delle creazioni degli autori, senza tradirne né l’animus né la visione profonda della vita, quella propria che tedeschi chiamano Weltanschauung. Abbiamo dovuto  di nuovo subire l’oltraggio di un regista che si appropria indebitamente dell’opera, ne altera, espropria i contenuti servendosene per le sue arbitrarie, gratuite visioni che lasciano amaro scontento e disorientamento e se le nostre parole fossero incaute, basterebbe soltanto prendere atto che il Teatro semivuoto già dall’inizio via via si è spopolato, mettendo infine alla corda i volenterosi che cercavano in qualche modo di vedere come andava a finire un’impresa che ha convinto pochi. Avere ospitato inizialmente la vicenda di  Siegfried in una cucina tinello da barbone, comprensiva di barbecue e carbonella utili a forgiare metalli, invasa e affastellata da tanti elettrodomestici sparsi, compresi stendino e asse da stiro, dove si consumavano atti di sodomia e violenti rovesciamenti di tavoli e divani, mentre la musica raccontava ben altro, lasciava attoniti per la gratuità delle scelte, irrelate alla vicenda in atto e della più trita avanguardia. Non era finita lì, nel secondo atto Vick portava in scena, come se i palermitani ne sentissero il bisogno, l’immondizia di Palermo, in sacchi enormi, spoetizzanti, con gratuite danze di mimi dal simbolismo opaco, regalandoci poi nel terzo, un panorama della città vetusta e martoriata.

A tal uopo, sfruttava le grezze pareti del palcoscenico che fungevano da cornice al lungo, inesausto duetto d’amore che vedeva un Siegfried in mutande e una Brunnhilde in fuseaux, eroticamente poco credibile nell’intimo abbraccio con un orsacchiotto di peluche, per raccontarci e cantarci il delirante duetto d’amore che preluderà purtroppo al Crepuscolo, con cui si conclude mortalmente il Ring. Questo è il Siegfried di Vick cui il libretto di sala, deferente verso il regista, rende omaggio con tante foto, senza riportarne nemmeno una del compositore, dimostrazione di come oggi s’intende il mondo dell’Opera. Tanti, gli appelli che da anni si elevano da più parti nei confronti di queste regie devastanti e per niente innovatrici che, nel falso e demagogico intendimento di avvicinarlo,  allontanano il pubblico: i vecchi non vanno più, e ai giovani viene consegnata una memoria tradita e falsificata: “Vano delle scene il diletto se non mira a preparar l’avvenire” è l’intento pedagogico della funzione catartica del Teatro. Sarei curioso di chiedere a Vick quale futuro consegna così alla memoria delle nuove generazioni. Si intende perfettamente che in tale clima sono stati la  musica e il canto a pagarne le spese, giacché l’orchestra, guidata da un volenteroso Reck non ha trovato sempre quei colori, quelle sonorità, che esprimono quel misticismo e quella solennità che la scrittura wagneriana esige con l’unico pregio di non aver mai soverchiato le voci. Non più fortunato il cast: Cristian  Voigt nei panni di Siegfreid avrebbe dovuto conferire anima, smalto, potenza e risvolti psicologici al personaggio addestrato a non conoscere mai nei primi due atti, la paura; giovane, mitico eroe in lotta contro le forze sommerse del destino, capace di fronteggiare ogni pericolo ma anche di sciogliersi in teneri abbandoni allorché l’amore che il denaro e il potere  sottraggono gli si rivela in tutta la sua forza, ci lasciava assai perplessi per una voce che via via diveniva sempre più fioca, perdendo vigore, ai limiti dello sforzo. Nella stessa linea, la Brunnhilde di Meagan Miller dalla vocalità di accentuato vibrato, priva di quel calore e di quella seducente lusinghiera vis che il ruolo richiede. Un po’ in ombra anche il Mime di Peter Bronder dal timbro acidulo, dall’emissione monocorde ma nel complesso di buona tenuta. Al meglio il Wanderer di Thomas Gazheli vigoroso, sicuro, di convincente figura come la Erda di Judit Kutasi che in qualche modo ci riconciliavano con quello che avrebbe dovuto essere il canto wagneriano. Gradevole per rotondità e delicato timbro, la voce  di Deborah Leonetti (Stimme des waldvogels). Completavano il cast Sergei Leiferkus (Alberich) e Michael Eder (Fafner). Tiepidi i consensi finali dei superstiti con sostenuti dissensi rivolti a un Vick appagato e convinto che tali dissensi costruiscano, oggi, le carriere. Di Wagner, appena l’ombra.

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