Götterdämmerung al Massimo di Palermo
(Salvatore Aiello)
Mats Almgren (Hagen)-FOTO di Rosellina Garbo
Impegnativa e coraggiosa, ma portata a termine con successo, l’inaugurazione della Stagione 2016 del Massimo di Palermo con il Götterdämmerung che ha concluso la Tetralogia; un progetto accarezzato per un triennio e che ha riportato il Ring nella nostra città dopo lungo tempo, affidandone le sorti a Graham Vick. Il regista ha voluto lasciare un segno del tutto personale della visione che egli ha di Wagner, spronato ed ispirato da una voglia di realismo e di attualizzare il mito abbeverandolo alla consonanza del nostro mondo nella convinzione che la spettacolarità oggi paga.Sosteniamo questo perché ci sembra che si sia fatto prendere la mano, lasciando un po’ ai margini, in qualche momento e distraendo quanto la musica e il testo raccontano.Il Crepuscolo degli Dei, terza giornata, vive nell’opus wagneriano ai piedi di un tormentato processo creativo che ha impegnato l’Autore per ben ventisei anni e in maniera confusa, come era nel suo stile, risultando un’operazione spesso cervellotica per ispirazione e trama. Wagner dimidiato tra il fascino del mondo mitologico e gli indirizzi idealistici del 1848, racconta, animato da sentimenti socialisti, secondo la visione di Bakunin, come l’adescante sete del denaro e del potere corrompa uomini e Dei ma soprattutto ne altera la qualità della vita ed ogni istanza morale per cui tutti finiranno col cedere all’abiezione. Nietzsche sosteneva che Wagner ammalava tutto ciò che toccava ma anche Vick affondava il suo bisturi propinandoci sulla scena, sin dal prologo, sconvolgenti annunci per cui le Norne ci informavano della fine dell’universo a causa della deflagrazione della dinamite preparata da squadre di kamikaze pronte all’olocausto finale. E non solo: ci attendevano momenti di teatro nel teatro, nuovi incesti (Gutrune – Gunther), frequenti ricorsi alla cocaina e violenze fisiche in qualche momento gratuiti e, come se non bastasse, poi un ricorso a tutte le brutture del mondo. La ribalta finale si animava dell’ammucchiata dei vari reperti usati nelle precedenti giornate quali sacchi di spazzatura, materassi vecchi, suppellettili diverse e altri oggetti, compresa la roulotte di Votan a ricordarci un mondo pieno di contraddizioni, di inganni, frodi, violenze, raggiri, cibo misero di una società che ha perso cifra perché svuotata della capacità di amare. Questi, in breve, gli intendimenti della regia coadiuvata dalle scabre scene e dai costumi di Richard Huddison con la funzionale partecipazione dei mimi di Ron Howell. Lo spettacolo ci ha lasciati pensosi anche nel finale non assumendo i toni della redenzione né della glorificazione di Brünnhilde che secondo il Musicista avrebbe dovuto raccontare l’aridità di ogni desiderio alla luce della pessimistica visione di Schopenhauer. A tal punto rimaneva aperta la domanda dopo l’annientamento degli Dei e il ritorno dell’oro nel Reno:quale destino è riservato agli uomini? Nessuna speranza aleggiava ma sovrastava nichilismo e pronta distruzione con ammiccamenti alle strategie odierne dell’Isis. In questo contesto la musica ha pagato un certo prezzo. Stefan Anton Reck a capo dell’orchestra duttile e volenterosa si è speso con impegno e passione, attento sempre a dialogare col palcoscenico per ricreare colori e trame espressive, lasciando agli interpreti la possibilità di rendere al meglio. Il cast, scenicamente efficace, pronto e disinvolto a tutte le indicazioni della regia, non risultava omogeneo e del resto oggi è assai difficile trovare voci di specialisti che possano pienamente rendere giustizia alle richieste dei geni creatori. Vogliamo chiedere perdono a Borgatti, Melchior, Windgassen se oggi nei panni di Siegfried troviamo Christian Voigt assai deludente già nella giornata precedente, creando imbarazzo per la sua voce piccola che perdeva via via intonazione e colore mentre il canto si opacizzava con cadute di pezzi d’anima per renderci a pieno il personaggio dalle molteplici sfaccettature; un uomo che apparentemente sembra privilegiato ma che poi, incapace, ottuso e privo dell’esperienza salvifica del dolore, si consegna , incosciente, alle ragioni sporche degli altri. A rialzare le sorti, la voce imponente di Iréne Theorin una Brünnhilde corposa e omogenea in tutti i registri, di buono squillo, capace anche nel finale di note intimistiche e tenere con l’unico limite: il poco dominio della zona acuta lasciata a sonorità non molto controllate. Impegnata in un dialogo serrato e disperato tra sorde con la sorella, Viktoria Vizin una Waltraute encomiabile per timbro, volume e soprattutto linea di canto. Senz’altro dignitose le prove di Elisabeth Blancke-Biggs (Gutrune), di Erick Greene (Gunther), Sergei Leiferkus (Alberich). Una citazione a parte merita l’imponente Mats Almgren (Hagen) dalla voce ben timbrata, l’emissione morbida che si espandeva facilmente in zona acuta e capace di vivere il personaggio con tutte le malizie, la cattiveria, l’ipocrisia, gli intenti di un novello Jago. Le incombenti Norne erano Annette Jahns, Christine Knorren e Stephanie Corley quest’ultime anche nei panni di Wellgunde e Woglinde mentre Renée Tatum era Flosshilde. In risalto il coro istruito da Piero Monti. Efficaci, anche se talvolta abbaglianti per la platea, le luci di Giuseppe Di Iorio. Pieno consenso di un caloroso pubblico forse più attratto da ciò che lo spettacolo ha raccontato che dalla parte musicale che secondo noi avrebbe dovuto meritare più attenzione e rispetto in quanto non bisognerebbe mai perdere di vista che l’opera appartiene al suo autore e soprattutto quando si tratta di Wagner che con l’Opera Totale (Wort-Ton-Drama) avocava a sé pieno e totale riconoscimento della sua genialità su tutto e tutti.
.