Il Macbeth al Massimo di Palermo secondo Emma Dante

(Salvatore Aiello)

Con Macbeth, opera che seduce comunque, si è inaugurata la Stagione del Massimo di Palermo con un nuovo allestimento del Teatro in coproduzione col  Regio di Torino e con Macerata Opera Festival.Viva l’attesa poiché al varco c’era Emma Dante, chiacchierata regista che lascia sempre il segno della sua impronta personale. Grazie “alle calmate” che si è  data, lo spettacolo ha avuto come precipuo merito quello di non aver stravolto né l’autore né l’opera ma con intelligenza ha mostrato l’abilità di crearsi una corsia preferenziale del rapporto tra sete di potere e fragilità umana. Quest’aria infatti si respira nel capolavoro verdiano allorché nel 1847 approdò a Firenze con memorabili interpreti che tennero conto di tutte le indicazioni di Verdi prono a ricreare del tutto l’atmosfera shakespeariana  mostrando grande versatilità che ancora e di più riconfermerà in Otello e Falstaff. Emma Dante nonostante alcune cadute di gusto gratuite (stupri, satiri con falli pronunciati, parti in pentola) è riuscita ad ambientare la storia in un palcoscenico vuoto e sinistramente buio che di volta in volta riceveva la cifra degli elementi simbolici guida dell’azione. Durante il preludio coreuti danzavano sotto il cielo di un velo di sangue, quel sangue versato copiosamente nella lotta crudele per il potere, poi corone incombenti con cancelli intrecciati  di spade acuminate, troni alti costituivano il recinto  alla maniera di Lloyd, dove l’umanità perdeva pezzi per rivestirsi di bestialità. Il male non conosce né sosta né limite per cui le streghe venivano violentate aprendo i loro ventri a continua violenza prolificando incessantemente di sé la Scozia. A un preciso richiamo dello storico film di Orson Welles rispondevano la lettura della lettera affidata a Macbeth e la morte di re Duncano assassinato in scena con il suo calvario  spalancato davanti agli occhi durante una processione dalle movenze dei Misteri trapanesi.

Abiti dagli  strascichi lunghi rossi come il sangue cosparso, assumevano ruoli protagonistici nella scena del brindisi del secondo atto dove allucinazione e crudeltà sottendono una musica falsamente di festa; fichidindia al posto della tradizionale foresta di Birnam ricordavano che la sete di potere non ha confini né patria ma è un morbo che attanaglia ogni uomo e ogni società. In sintonia la coreografia di Manuela Lo Sicco, le agili e significative scene di Carmine Maringola e gli aderenti costumi di Vanessa Sannino. Se lo spettacolo via via incuriosiva  e prendeva, sul piano dell’esecuzione musicale diverse le perplessità.

Purtroppo l’opera esige tre protagonisti di eccezione: Macbeth, la Lady e il Coro; rinunciamo a ripercorrere il faticoso cammino dell’opera dal 1847 al 1865 per Parigi ma ricordiamo quali difficoltà abbia dovuto superare il bussetano per ottenere il baritono Varesi, il soprano drammatico d’agilità Barbieri Nini e tutte le raccomandazioni relative all’interpretazione  rivolte ai cantanti che dovevano essere pronti ad osservare più la poesia che la musica. Prerogativa massima questa, per cui chi si accosta all’opera deve possedere un senso profondo del teatro, dell’interpretazione ed avere soprattutto una personalità altamente drammatica e comunicativa. Abbiamo ascoltato  i due baritoni alternatisi nel ruolo del protagonista: Giuseppe Altomare e Roberto Frontali (per le ultime due recite), questi in soccorso al teatro dopo la defezione del titolare Luca Salsi. Altomare in genere ha retto  con un mezzo privo di particolare impasto morbido, di solennità, di accenti significativamente drammatici per scavi interiori e con qualche problema in zona acuta; su un altro piano si attestava la prova di Frontali se non altro per maturata esperienza e vocalità duttile; nonostante il tempo ne abbia prosciugato in qualche modo lo smalto, ha vissuto il personaggio intensamente in tutte le pieghe regalando momenti di piani suggestivi.Anna Pirozzi soprano lirico spinto, nei panni della Lady, metteva a disposizione buone risorse per timbro, estensione e volume, anche se non sempre  col dovuto controllo della zona acuta che talvolta appariva forzata (il re bemolle sovracuto di chiusura del sonnambulismo avrebbe meritato un fil di voce sostenuto). Purtroppo non è la Lady di Verdi poiché risultava carente di appeal drammatico, di fraseggio vario  e sfumature tragiche. In grande aggetto la prova di Marko Mimica, un Banco che si è imposto per volume colore, omogeneità di registri, linea di canto nobile, potente e fluida non disgiunta da una cocente e febbrile espressività. Solo dignitose le prove di Vincenzo Costanzo (Macduff), Manuel Pierattelli (Malcolm); completavano adeguatamente il cast: Nicolò Ceriani e Federica Alfano. Gabriele Ferro è  stato preciso nella direzione rallentandone però alcuni passaggi rendendola avara dei bagliori e incandescenze squisitamente verdiani; ha comunque dialogato sempre col palcoscenico assecondandone i tempi. Un merito particolare gli va riconosciuto: l’aver introdotto nel finale l’aria di Macbeth “Mal per me che mi affidai” dell’edizione del 1847 lasciando anche spazio alla morte del protagonista sulla scena in consonanza col finale dell’edizione parigina dl 1865. Valida la prova del Coro istruito da Piero Monti, impiegato e dimezzato dalla Dante in scena, in buca, in sala, così anche la performance  degli Attori  ed Allievi della Scuola del teatro Biondo. Il pubblico ha congedato lo spettacolo con calore ed entusiasmo.

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