POESIA: IL “FONETISMO” COME IPOTESI

(Nicola Romano)

Difficile, e forse prematuro, cercare una caratteristica nella poesia prodotta dall’ultimo Novecento fino ad oggi: rigurgiti di post‑ermetismo, di neo‑romanticismo e perfino di crepuscolarismo hanno pregnato, e continuano a pregnare, la maggior parte dei testi poetici contemporanei. In particolare, nell’ultimo quarto del secolo scorso sembra che la poesia italiana abbia segnato il passo dentro un’area in cui nulla-c’è-da-dire-perché-tutto-è-stato-detto. E allora, in questo lasso di tempo, gli autori sembrano essersi affidati di più alla parola come strumento di segno e di suono che come valore di contenuto, in una sorta di riconversione della comunicazione che non vuole tendere più al rapporto intrinseco diretto ma che vuol tendere ad una sorta di tam tam generale. E la questione nasce proprio con la struttura stessa della singola poesia, con una preordinata e seppur involontaria organizzazione di grafemi che lasciano già intravedere un “fonetismo visivo” che poi diventa sonoro nel momento in cui viene data voce al testo. Ne è prova un certo recente risveglio dei dialetti, per la verità non proprio accessibili a tutti: le traduzioni (e i tradimenti) possono restituirne i significati, ma quel che inizialmente conta è il suono e la musicalità che ciascun dialetto porta al suo interno. Un esempio a noi vicino ci è dato dalla poesia di Nino De Vita, il quale pur avvalendosi delle consuete atmosfere appartenenti alla dimensione rurale e contadina in genere, affida però alla specifica parlata della contrada Cutusiu di Marsala, dove l’autore ha vissuto l’infanzia, quella discriminante fonica che da sola riesce a donare vigore a tutta quanta l’espressione poetica. La stessa cosa si può dire per i testi di Albino Pierro, di Biagio Marin, di Franca Grisoni (tanto per rimanere nel registro dialettale), dove il principale strumento è quello che scandisce il ritmo linguistico, rispettivamente, del dialetto tursitano, di quello gradese e di quello sirmionese. Altro esempio per questo breve discorso sono gli «Esercízi di tiptologia» (1992) di Valerio Magrelli. Già dal titolo si viene a conoscenza che “la tiptologia” è la tecnica usata per decifrare i colpi sui tavolini dei medium o il battito convenzionale sui muri divisori delle celle dei carcerati. Nell’estensione dei testi, colpisce subito la prevalenza ludica e ritmica delle parole che danno all’insieme una pirotecnìa verbale ammaliante ma pur sempre estranea ad una comunicazione affabulante o coinvolgente. Ulteriore esempio massimo è la poesia “a percussione” di Toti Scialoja scomparso nel 1998, il quale in una dichiarazione di poetica disse per l’appunto che “nel processo di seduzione, le parole della poesia si trasformano in un’incantevole musica mentale”. E cosa dire dell’infinita avanguardia letteraria di Edoardo Sanguineti basata su di una impostazione strutturale che ci ha sempre portato esiti di versi foneticamente tambureggianti ed ortograficamente similari a degli spartiti musicali? E, guarda caso, Sanguineti ha anche fornito alcuni testi per l’esasperato e monocorde ritmo delle canzoni rap. Anche nella poesia di Elio Pagliarani abbiamo trovato un’articolazione ritmica, metrica e semantica a volte imprevedibile. “Il lavoro di Pagliarani – dice Gabriella Sica – tende alla riattivazione del linguaggio poetico su un tempo doppio, come nella musica”. Anche il poeta-giullare Valentino Zeichen, che può essere considerato – come egli stesso sostenne – un futurista di ritorno, ritiene che la scrittura debba essere “sonorizzata” attraverso la rappresentazione vocale (o addirittura teatrale) dei testi. Riferendoci sempre all’attualità, se è vero che la vita diventa inevitabilmente poesia, sembra che a un certo punto anche i poeti abbiano metabolizzato inconsciamente le nuove pulsioni e i diversi algoritmi provenienti soprattutto dalla tecnologia e dall’informatica, tali da modificare il proprio spazio interiore con le cadenze imposte dai particolari suoni (talvolta a perdere) e dai particolari ritmi che le moderne impostazioni quotidiane elargiscono. Pertanto, il flusso ritmico derivante dalla realtà esterna può inconsciamente cristallizzarsi pure nel linguaggio, per quella che è una delle classiche testimonianze del proprio tempo. La parola ormai non sembra avere più il suo significato primigenio nella comunicazione, ad una stessa parola possono corrispondere diversi significati nell’odierno caos interpretativo, tanto vale sostituire alle parole i suoni che comunque generano curiosità ed attenzione, alla stregua del vecchio suono delle campane i cui rintocchi, diversamente modulati nei toni e nelle frequenze, annunciavano nelle campagne momenti di gioia o di dolore. Ho assunto degli esempi estremi, ma attualmente molta contemporaneità continua a produrre polifonìe tali da poter fare individuare un nuovo “ismo” in questo diffuso e probabile “fonetismo”.

 

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