LA DONNA SAMURAI

(Carla Amirante)

Quando si parla della donna nipponica spesso la prima immagine che affiora nella nostra mente è quella che abbiamo ammirato in molte stampe antiche del Giappone, quella di una gheisha, una fanciulla attraente, colta e raffinata, che, in una casa da tè, conversa e intrattiene gli ospiti con la musica, il canto e la danza. Ma accanto a queste donne, visioni di grazia e bellezza femminile, ce ne sono  altre, totalmente all’opposto, poco conosciute ma realmente esistite che hanno svelato un altro aspetto molto importante e interessante della donna giapponese. Queste ragazze erano le onna-bugeisha o le donne samurai, non erano delle fragili dame, ma all’occorrenza guerriere coraggiose e abili del medioevo del Giappone.  L’onne bugeisha può essere considerata l’equivalente del samurai, che in origine era un soldato di stanza al castello del suo signore e che apparteneva alla casta aristocratica giapponese. Anche queste ragazze facevano parte della classe bushi dei combattenti, e quindi erano delle vere soldatesse, che nell’antico Giappone, tra il 12° e il 19° secolo, badavano alla difesa e all’onore della famiglia nei periodi in cui c’era la guerra e gli uomini della famiglia erano impegnati a combattere altrove. Per essere pronte a combattere in caso di necessità e ad affrontare la lotta, si addestravano nell’utilizzo delle armi, imparando a maneggiare le spade e ad usare in particolare la naginata, una lancia dotata di lama, un’arma diversa dalla più corta takana, usata dagli uomini. Ma l’onne bugheisa non va considerata come l’equivalente femminile del samurai, perché la maggior parte di loro conduceva una vita quotidiana tradizionale, occupandosi della casa, come moglie, figlia e sorella del samurai. Quando però i guerrieri della loro famiglia erano lontani a combattere, erano loro a curare il buon andamento degli affari, la gestione economica della famiglia; così, oltre a sapere leggere e scrivere per svolgere queste incombenze, si addestravano nelle arti marziali per essere pronte a combattere fino a morire onorevolmente con le armi in pugno. Di queste donne-samurai poco si sa, tuttavia in Giappone si ricordano ancora i nomi di alcune di loro come Jingū Kōgō, Hangoku Gozen, Nakano Takeko, Hojo Masako e si raccontano le loro storie leggendarie, ma così leggendarie da non essere certe.  Jingū Kōgō (169 circa – 269) può essere ritenuta la prima donna samurai e, per la scarsità d’informazioni, è considerata dagli storici una figura leggendaria; per alcuni ella è invece la principessa Himiko “la figlia del sole”, la sciamana-regina del III secolo di Yamataikoku di cui si parla nel Kojihi e nel Hihon shoki; nel 1881 l’imperatrice fu la prima donna ad essere presente in una banconota giapponese. Jingu era la moglie dell’imperatore Chūai, e divenne reggente dalla morte del marito fino alla salita al trono del figlio primogenito Ōjin, che, sempre secondo la leggenda, era nato tre anni dopo la morte del padre. Forse i tre anni vanno interpretati in più modi: un periodo di circa nove mesi, alcune stagioni, un ciclo di tre raccolti, oppure una paternità mitica e simbolica piuttosto che reale. La leggenda narra che l’imperatrice con il suo esercito invase la Corea senza versare una goccia di sangue, per poi tornare vittoriosa dopo tre anni nel suo regno. Tuttavia, questa tesi è stata respinta anche in Giappone, in quanto non vi è alcuna prova di questa invasione della penisola coreana e di un dominio giapponese su di essa. Questa interpretazione è un’ipotesi, anche se il regno di Baekje del sud-ovest della penisola coreana ebbe rapporti molto stretti con la corte nipponica, mediante scambi diplomatici e culturali, che facilitarono l’ingresso della cultura continentale in Giappone. Un’altra donna samurai famosa fu Hangaku Gozen, figlia di un guerriero, che visse intorno all’anno 1200; di lei si diceva che fosse “impavida come un uomo e bella come un fiore”, molti incisori l’hanno ritratta nelle loro opere. Questa onne bugeisha nella sua ultima battaglia era al comandò di 3.000 soldati ed affrontò con grande forza e coraggio un esercito molto più numeroso del suo che contava 10.000 soldati del clan Hōjō, ma fu sconfitta. Ferita da una freccia, fu catturata e portata davanti allo Shogun, il comandante dell’esercito nemico, quindi processata, condannata a morte con la possibilità di commettere seppuku, il suicidio rituale. Ma Asari Yoshitō, un guerriero nemico, innamorato di lei, la chiese in moglie all’imperatore e così Hangaku fu salva; i due giovani si sposarono, vissero felici e contenti  ed ebbero una figlia. Terminiamo raccontando la storia Nakano Takeko (1847–1868), forse l’ultima vera onna-bugeisha del passato. Figlia primogenita di una famiglia di samurai molto potente, era di bell’aspetto, ben educata, avendo ricevuto una formazione completa nelle arti marziali, in quelle letterarie sui classici cinesi confuciani, e nella calligrafia. Amava molto leggere le storie di donne guerriere, generali e imperatrici giapponesi e in particolare la leggenda di Tomoe Gozen. Durante la guerra civile prese parte alla battaglia di Aizu nel nord del Giappone, nella quale si distinse combattendo all’arma bianca con la sua naginata contro le soverchianti forze imperiali e comandando un corpo di sole donne guerriere, di cui facevano parte anche la madre e la sorella. La sua formazione andava in battaglia in modo autonomo e indipendente, perché gli alti gradi militari di Aizu non permettevano a loro di guerreggiare, in modo ufficiale, come parte dell’esercito del dominio. A questa unità fu in seguito dato, in modo retroattivo, il nome di esercito femminile e Nakano così divenne capo delle donne-samurai proprio il giorno precedente alla sua morte. Nella notte prima della sua ultima battaglia, ella, quasi sentendo la morte avvicinarsi, scrisse dei versi in cui manifestava tutta la sua grande forza d’animo e profonda umiltà:

 «Non oserei mai considerarmi / membro della cerchia dei più grandi e famosi guerrieri / anche se condivido con tutti loro / il medesimo coraggio.».

La mattina dopo Nakano si scagliò con una carica all’arma bianca contro le ingenti truppe dell’esercito imperiale giapponese del dominio di Ōgaki, ma agli avversari, che, con sorpresa, si erano accorti di combattere contro donne soldato, fu impartito l’ordine di non sparare e non ucciderle. Questa esitazione permise alle guerriere di affrontare i nemici all’arma bianca uccidendone molti, la stessa Nakano ne uccise cinque o sei a colpi di naginata prima di essere colpita a morte da un colpo di fucile. Morente, perché il nemico non le mozzasse il capo e lo  usasse come trofeo di guerra, chiese alla sorella Yūko di decapitarla per impedire la sua cattura e per potere avere un’onorevole sepoltura. Dopo la battaglia la testa di Nakano Takeko fu traslata nel tempio Hōkai della famiglia dove fu seppellita con onore dal sacerdote sotto un albero di  pino, mentre la sua arma fu donata al tempio. La memoria storica della sua figura di donna samurai e delle guerriere da lei comandate, è tenuta viva  e tramandata con manifestazioni e rievocazioni storiche, ogni anno, nel Festival d’autunno della città di Aizu. In quell’occasione giovani ragazze, abbigliate con l’hakama, tradizionale costume giapponese, e la testa cinta da fasce bianche, ricordano con un corteo storico Nakano con  il suo gruppo di donne guerriere e rievocano le loro azioni di guerra.

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