AZZURRA APOCALISSE O LA SOLUZIONE FINALE

Carmelo Fucarino

L’ossimoro del titolo già preannunzia il tema e la conclusione della vicenda e la riassume in un termine che nell’ultimo testo cattolico preconizza lo svelamento di fatti nascosti e certamente non favorevoli alla generazione umana, la “rivelazione” attribuita con qualche probabilità a Giovanni, «che Dio gli diede per render noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere». In genere oggi il termine è inteso come «come termine di riferimento o di confronto, catastrofe, rovina totale, fine del mondo» (Treccani). L’attributo aprirebbe invece all’immensità di un cielo sereno, all’infinita distesa degli oceani, eppure c’è quello svelamento di terribili fatti imprevedibili per l’uomo comune. Lo straordinario è che Azzurra si svela ad incipit come nome proprio e non aggettivo, ne rivela il gioco paronomico, «nella città di Azzurra il cielo gioca col nome». Un colore che connota un particolare luogo, «che ha il colore del cielo sereno (intermedio fra il celeste, più chiaro, e il o turchino, più cupo» (Treccani). In effetti, per dichiarazione dell’autore, Sandro Dieli, saranno due le città possibili, che identificano questo scenario che, man mano viene arricchito di altri specifici connotati durante tutta la narrazione, Palermo e Barcellona, “dolorosamente amate”, unico regno del tempo catalano, città sorelle per dominio e storia e rese artistiche in sintonia con le accensioni dei governanti, re e governatori in Sicilia. Perché fra le due si svolge la vita dell’autore e anche la sua reale attività. Comunanza di vita e di interessi che ne fanno una sola città, colori simbolo dell’apertura sentimentale, l’Azzurro. Il mare con le “alte scogliere”, le “montagne aspre” della Conca d’oro. E di esse le case, le chiese, i popolari numerosi bar, i monumenti, tesoro dell’’oblio quotidiano’, il misterioso teatro e lo stadio di atletica, con i suoi patiti di esercizi e di docce, perché «la città di Azzurra è fatta così». E in essa Renato e la moglie incinta Elena in imminenza di parto, personaggi con nome reale, lei nella languidezza dell’attesa, lui, nell’ansia della “campagna d’autunno”, nell’ossessione dell’incremento delle vendite. Accanto  nella loro azienda l’ambiguo nipote del parroco. E la seconda donna nel consueto popolare trio, la Livia “affiancata”. Ed è qui, da una scena di vita familiare, che tutto diventa generico ed evanescente, la figura emblematica anonima del Capo dei capi. Di chi? Di uomini che devono proporre la loro “strategia”. Soggetto?  l’attività che occupa l’intera vita dell’autore, il teatro e nel caso un teatro che alla fine rappresenta le due città. A parte la storia parallela del Capo dei capi, la vera protagonista è la famiglia del Clown, ancora un lui e la moglie anonimi, come il capo, prototipi e simbolo, senza specifici connotati anagrafici, in un intreccio di vita globale con l’immancabile onnipresente Direttore, in un garbuglio sessuale. Tutto gira intorno a loro, anonimi protagonisti, qualificati soltanto dalla professione tra promesse mirabolanti di spettacolo da realizzare: l’uno, il Direttore, che ne crea la struttura e il contenuto, il clown che lo realizza. Quasi a rappresentare tutta la città, mentre ognuno nel suo specifico ordisce la misteriosa terribile trama. E l’anonimo Parroco, che “ama sempre più confessare”, quello delle lettere anonime ed Angelo (“io sono il cavallo), innamorato di Elena, gestore reale di un bar e con lui reagente, e quell’insignificante “uomo con il cane al guinzaglio”, che stupisce ed incuriosisce con il continuo passaggio senza senso. Nell’amore sbandierato e promesso come fine della vita un continuo annunzio di una sorprendente conclusione. Può la comunanza di fini produrre sinestesia e comunione? O la terribile sfida dell’invidia in tutti i gruppi ristretti, il piccolissimo gruppo teatrale o quello di un ufficio o di una scuola, che brucia nei cuori e impedisce una libera sinergia in un gruppo ristretto. È probabile che l’invidia, esplosa in odio infernale ha prevalso in questo piccolo contesto e in tanti altri ristretti. Tanto da divenire autodistruttivo, quel muoia Sansone con tutti i filistei. L’invidia che trapassa all’odio e alla distruzione, alla completa, assurda, catastrofica Apocalisse. La bellezza del racconto, oltre che nella semplicità e scorrevolezza della parola, sta in questo clima di sospensione, nel dire, nel presagire, nell’avanzare ipotesi che sono contraddette dalla successiva scena, in questa sospensione, talvolta giocata sugli equivoci, sull’effetto del gesto o della parola, che poco fanno presupporre l’orditura man mano accennata, ma mai prevista in questo tipo di catastrofe. Tutto proposto nel frammento, semplice, interrotto da altro, un lampo che propone soltanto squarci di verità rivelata a sprazzi da personaggi reali con nome e metafora di uomini vissuta nell’anonima qualifica professionale, veri motori dell’azione. E pertanto l’attesa di qualcosa di imprevedibile, scena a premonire altra scena e ad essa intrecciarsi, in una inclusione di strani piccoli personaggi, anche loro anonimi, ma caratterizzati da qualcosa che sembrerebbe nulla dire, personaggi che sembrerebbero estranei e che poi risultano tasselli fondamentali del mosaico. A rappresentare la difficile comunione tra uomini che vivono le stesse esperienze. E dopo la catastrofe la certezza del coraggio della città: «Coraggio, Azzurra certamente non si perderà d’animo, ma al momento è solo morte e stridore di denti».

SANDRO DIELI, Azzurra Apocalisse, Bookabook, Vignale (MI), 2022. Attore e mimo, regista, scrittore, podcaster e Direttore artistico del Festival di teatro italiano a Barcellona, direttore artistico Progetto Teatro d’appartamento tra Palermo e Barcellona.

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