LA RIVOLTA CONTRO I “CUTRARA”

Francesco Paolo Rivera *

Il Dizionario Siciliano Italiano, di Vincenzo Mortillaro (ed. 1881), alla voce “Cutraru” riporta la definizione “Maestro che fabbrica le coltri”; e alla voce “Cutra” la definizione riportata è “1. Coperta da letto, e se ne fanno di diverse materie. Coltre; 2. Cutra a ventu …: 3. Cutra di catalettu o di mortu: “dicesi quel panno nero, o paonazzo con cui si usa coprire la bara, nel portare i morti alla sepoltura: Coltre funerea;” 4. Tutta la sciarra pri la cutra è, prov. che mostra la voglia di trarre profitto da una bisogna ognuno a suo pro, laddove sia contrario interesse, o pure impegno di molti onde acquistare una cosa stessa. In certi casi esprime difetto per pronti mezzi per cosa reputata indispensabile. Questo proverbio ebbe origine nel tempo da un diritto abusivo di molti curati che nell’associare i cadaveri allora processionalmente, per apprestare una ricca coltre di loro esclusiva proprietà, imponevano una tassa arbitraria, giusta la forza ereditaria del defunto, perché era quel danaro la precipua parte di loro mantenimento, e opponendosi a certi eccessi i superstiti, erano sempre alle prese fino a che concordavano.”  5. Cutra sfiluccata o pure agnillina: “coperta da letto villosa di filo di lino o di cotone.” Questa premessa serve per specificare il significato sia letterale che figurativo del termine “cutrara”: in tempi antichi, i sacerdoti per far soldi, anche se la legge (sia quella civile che quella religiosa) lo vietavano, imponevano agli eredi di coprire i morti per la sepoltura con una “cutra di catalettu” di proprietà del sacerdote, dietro versamento di una specie di tassa proporzionale al valore dei beni che avevano ereditato. Il che generava spesso “sciarre” tra gli eredi, circa l’ammontare della somma da versare. La cosa determinò l’appellativo di “cutrara” per coloro che manifestavano un intento nobile mascherando quello dell’interesse economico. Ciò premesso, si può procedere alla narrazione dei fatti che generarono la prima rivolta dei siciliani contro il nuovo Regno d’Italia, la rivolta di Castellammare del Golfo di capodanno 1862. Dopo la unificazione del Regno d’Italia, una tra le primissime disposizioni legislative introdotte dai sabaudi fu la leva militare obbligatoria, della durata di sette anni (legge 30 giugno 1861), leva obbligatoria che sotto il regime borbonico non esisteva. Tale disposizione prevedeva, però, la possibilità di ottenere l’esonero da tale obbligo, dietro versamento allo Stato di una tassa piuttosto pesante (3.100 lire). Ovviamente tale disposizione danneggiava i contadini, sia perchè non possedevano le disponibilità economiche per il pagamento del prezzo del riscatto, sia perchè la partecipazione alla leva militare comportava, per loro, l’impossibilità di provvedere all’unico mezzo di sostentamento, la coltivazione dei campi, e quindi quella disposizione equivaleva, per loro e per le loro famiglie, alla fame. I siciliani di Castellammare, che avevano partecipato all’avventura garibaldina con entusiasmo, fiduciosi nelle promesse di cambiamento e nella riforma agraria (ripartizione delle proprietà demaniali ai contadini) promessa da Garibaldi, si resero conto di essere stati ingannati. I nobili e i feudatari avevano fatto i propri interessi acquistando, a poco prezzo, le terre demaniali, si erano impossessati di tutte le cariche amministrative più importanti, avevano fatto esonerare i loro figli dall’obbligo della leva militare: avevano fatto i loro interessi, tradendo quelli del proprio popolo, costringendo così tutti i giovani soggetti alla leva, che non avevano la possibilità dell’esonero, a darsi alla macchia, a nascondersi nelle grotte e negli anfratti delle montagne soprastanti Castellammare. I rampolli di ricche famiglie, vennero così denominati “Cutrara”. Così, nel giorno di Capodanno del 1862, circa 400 contadini – armati di fucili, forconi, tridenti, zappe, bastoni e coltelli – decisi a tutto … anche alla morte, al grido di “morte ai Cutrara”, dalla contrada Fraginesi raggiunsero il centro del paese, dove affrontarono il comandante della guardia nazionale (che aveva funzioni di “commissario di leva” … cioè quello che esonerava dalla leva i figli dei ricchi) che uccisero a coltellate e ne bruciarono la casa con tutti coloro che l’abitavano. Bruciarono la sede del Comune, della dogana e della regia giudicatura (il palazzo di giustizia,); i carabinieri della locale stazione furono fatti prigionieri e furono liberati i reclusi del carcere. La sommossa durò quattro giorni e fu sedata per l’intervento del parroco Girolamo Galante (di famiglia “cutrara”) e del “garibaldino” di Erice, Giuseppe Coppola (in odore di “mafia”). Ciò convinse ”i nuovi padroni” che per mantenere soggetta la Sicilia era indispensabile la collaborazione della “mafia”. Qualche storico asserisce che le denominazioni “mafia (o Maffia)” e di “mafioso” siano stati, per la prima volta, attribuiti dai “piemontesi” ai “galantuomini” della Sicilia in occasione della rivolta di Castellammare del Golfo. Si ritiene opportuno, in questa sede, anche per “l’attribuzione piemontese”, fare una breve indagine allo scopo di approfondire la provenienza e il significato della parola “mafia” e suoi derivati: il vocabolario Devoto e Oli (del 1967) la definisce “Sindacato clandestino di persone al di fuori della legalità che esercita il controllo di attività economiche e del sottogoverno nella regione Sicilia.”; la enciclopedia Rizzoli Larousse (del 1964) la definisce “fenomeno criminale localizzato in Sicilia basato su una complessa e organizzata rete di complicità, ricatti, delitti e violenze in genere a sfondo economico.”; il dizionario enciclopedico Sansoni – RCS (del 1965) così si esprime … “il fenomeno della mafia trae origine, inizialmente da fattori soprattutto economici relativi al mantenimento dell’ordine sociale e da parte della grande borghesia terriera collegata all’aristocrazia feudale siciliana, dopo l’unità nazionale assunse una colorazione anche politica come reazione alle autorità amministrative e giudiziali centrali …”; il dizionario Wikipedia la definisce “termine che indica il tipo di organizzazione criminale retta da violenza e omertà, che esercita il controllo di attività economiche illecite e del sottogoverno, diffuse originariamente in Sicilia.” Durante il periodo storico anteriore all’unificazione italiana fu addirittura definita (sicuramente da avversari mazziniani) come società segreta mazziniana (sicuramente mai esistita) la cui denominazione (Mafia) era formata dalla lettera iniziale delle parole che componevano la frase “Mazzini autorizza furti, incendi, avvelenamenti.” Infine, secondo l’etnologo Giuseppe Pitrè, la parola “mafia” (derivata dall’arabo “Mayas”), è, in lessicografia. l’estensione – avvenuta dopo il 1860 – del termine usato a Palermo nel Rione Borgo, come sinonimo delle parole “valentia, superiorità, coraggio, perfezione.” A questo punto, poiché nessuno delle definizioni  esaminate, fa riferimento a una derivazione  “piemontese” del termine, vale la pena estendere la ricerca al Dizionario Siciliano-Italiano di Vincenzo Mortillaro, (nelle sue tre edizioni del 1847, del 1853 e del 1881) nel quale la parola “mafia” viene definita “Voce “piemontese” introdotta nel resto dell’Italia ch’equivale a camorra”: è quindi indubbio che tale parola che si suole attribuire normalmente alla Sicilia e ai suoi abitanti è stata creata dai piemontesi e affibbiata – gratuitamente – ai siciliani, senza sottintesi burleschi, deridenti, sfottenti o comunque irriverenti. Dopo aver dedicata questa approfondita analisi al termine “siculo-piemontese” di cui sopra, vale la pena riprendere la narrazione dei fatti che riguardano la “rivolta contro i Cutrara”. Dopo quattro giorni la rivolta castellammarese era stata sedata e fu, a quel punto, che ebbe inizio, da parte dei regi sabaudi, la furia vendicativa: centinaia di bersaglieri sbarcati da due navi, diedero inizio al bagno di sangue. Si iniziò con un pesante cannoneggiamento contro gli anfratti della montagna che sovrasta la cittadina (… evidentemente i savoiardi erano a conoscenza del fatto che i renitenti di leva e i disertori si erano asserragliati lassù). Si proseguì quindi con la fucilazione di chiunque incontrassero (giovani, anziani, uomini, donne): un gruppo di civili che pare si fossero rifugiati in contrada Castellaccio per evitare i militari … furono fucilati senza alcun motivo apparente … erano quattro uomini e tre donne (di cui tre handicappati) di cui l’unico simpatizzante borbonico era un sacerdote. Dopo un “processo su due piedi” venne fucilata una bambina di 9 anni, Angela Romano, (forse sorpresa a portare del pane a un rivoltoso alla macchia) … fu l’unico processo, nella storia, di condanna capitale per una bimba di quell’età!  Nel 1864 venne celebrato il processo a Trapani contro 146 imputati, tutti condannati a pene severissime, ma un po’ per volta riuscirono, quasi tutti, a ritornare in libertà. Oltre che nel centro dell’abitato di Castellammare del Golfo, gli scontri si estesero nei villaggi circostanti; tra il dicembre 1862 e il gennaio 1863 le repressioni si allargarono fino a Scopello, “Real Sito Borbonico”, fino a Piano Vignazza, dove i rivoltosi – contadini e pescatori di Scopello – sconfissero i piemontesi. Gli scopellesi, infatti, erano di sentimenti filoborbonici, per diretta e reciproca conoscenza col Re Francesco II°, il quale durante il suo soggiorno in terra di Sicilia, soleva frequentare la zona di Scopello, ove aveva fatta costruire delle trazzere reggie e una riserva naturale. Circa gli scontri tra rivoltosi e truppe sabaude, e particolarmente circa la reazione dei piemontesi ben poco si conosce: in una lettera che il marchese Francesco Salvo di Pietragrande, esule borbonico a Malta, inviò, il 7 febbraio 1863,  a Salvatore Maniscalco, già Capo della Polizia (1), in cui si fa cenno ai propositi di rivincita borbonica in Sicilia, è scritto, tra l’altro: “Sapevate i particolari del conflitto di Scopello, nel quale una trentina di paesani posero in rotta una colonna di piemontesi, la quale perdè cinque uomini oltre gli uccisi. Colla brogna, che è la campana a stormo dei nostri villani, corsero tutti nelle vicine campagne e, se i piemontesi non fossero stati celeri nella ritirata, tutti avrebbero morduto la polvere. Questo fatto è rilevante per lo spirito audace e ostile dei nostri campagnoli contro i dominatori.” In considerazione del fatto che negli annali non era stato fatto alcun riferimento a una ipotetica distruzione di Scopello (cosa che sarebbe inevitabilmente accaduta in caso di attacco in forze) si presume che si sia riuscito a raggiungere, tra siciliani e piemontesi.  una soluzione pacifica. Il potere, in Sicilia, dove tutto ciò che sembra cambiare, rimane come è … in pratica rimase tale e quale a garantire l’ordine dei poveri contadini, ignoranti di tutto, mentre il patto fu pagato col sangue dei piemontesi.

*) Lions Club Milano Galleria – distretto 108 Ib-4

Note:  1) (Messina 1813-Marsiglia 1864) in Sicilia, nel 1848, al seguito del p.pe Carlo Filangeri di Satriano, Presidente del Consiglio delle Due Sicilie, fece carriera nella gendarmeria borbonica fino a diventare Capo della Polizia, carica che conservò fino all’arrivo di Garibaldi., fu quindi allontanato il 28 luglio 1860 per ordine del nuovo ministro dell’interno. Liborio Romano notoriamente vicino alla camorra. Salvatore Maniscalco, quando ancora era Capo della Polizia, aveva previsto il mutamento rivoluzionario, da autonomismo da Napoli ad unitarismo nazionale, così come scrisse il 15 maggio 1860, in una sua lettera indirizzata al Re: “… Mancava una mano intelligente e rigorosa per ben comandare l’esercito e rilevare il prestigio del governo quasi del tutto spento …”

 

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