Antonio Calabrò, Cuore di cactus, Sellerio, Palermo, 2010

(Pasquale Hamel)

Una vecchia torre “isolata, in un angolo, addossata a niente”.
Tutto comincia lì e, sperando, potrebbe finire lì.
Uno spazio metafisico carico di presenze emotive, una trama piena di ricordi, di sentimenti, di passioni ma, soprattutto, di sconfitte che bruciano. Uomo di successo, intellettuale prestigioso e, nonostante tutto, la sensazione, vissuta come dolorosa riflessione, di avere perduto la battaglia più importante, la battaglia nutrita per anni e testardamente perseguita, in una piccola ma vivace testata giornalistica di provincia, di potere vivere l’attesa stagione del cambiamento, divenuto quasi possibile in una “primavera” troppo presto suicidata dal vizio antico di un protagonismo autoreferenziale che, anche oggi, purtroppo continua a segnare negativamente il destino di un luogo tuttavia così denso di cultura. Tanti ricordi, cronache dense, che a tratti assumono i volti di uomini e donne che hanno creduto, che hanno sperato, che hanno combattuto sulle trincee di una normalità negata dalla violenza, dal malaffare, da tutte quelle perversioni che offendono l’ordine, il vivere civile… la legalità. Tante energie e tante intelligenze, forse – è questa l’amarezza che induce il quadro sconsolante della Sicilia – metafora di un Paese malato, inutilmente consumate nella speranza di un domani migliore.
Un pezzo della storia recente, storia privata e storia pubblica, percorso attraverso esperienze personali, filtrate da un ordito colto nutrito di tanti scritti e di tanti autori che intramano una cifra di scrittura la cui forma fascinosa è tentazione a sfuggire la sostanza di un testo sofferto e che, in qualche modo, fa soffrire.
Ombre, fantasmi che, come il canto delle sirene di Ulisse, ammaliano ma che la ragione dissipa, svelando l’inganno dell’inferno di cui “Palermo e uno dei suoi gironi peggiori”.
La rassegnazione all’irredimibilità. La storia di una fuga, dalla terra amata, obbligata dal trauma della perdita, la perdita di un amico, la constatazione della inutilità del resistere nell’impegno. “Me n’ero andato per rabbia. Per stanchezza. E per inquietudine”.
Ed il confronto con un luogo “altro” rispetto alla terra d’origine, Milano “città radicalmente diversa, addirittura opposta, a Palermo…un posto, comunque, in cui la vita quotidiana, il lavoro, l’esercizio della scrittura, le relazioni non erano e non sono affatto segnate dai giochi dei contrasti assoluti del bianco o del nero cui gli anni palermitani mi avevano costretto a fare l’abitudine”.
Un poco velato pessimismo – “sarebbe bello, mi dico, pensare a quella città , a quell’isola, come a dei posti ‘normali’. Non lo sono, purtroppo” – che non riesce ad essere dissipato neppure da quei timidi segnali, ma mi chiedo se non siano solo mistificanti o ingannevoli, che in questi ultimi anni Palermo e la Sicilia stanno nonostante tutto, sperimentando.
Tutto questo e molto altro emerge nel racconto – un viaggio al termine della notte mentre la pioggia batte sulle tegole del suo piccolo studio affollato da carte e volumi in disordine – che Antonio Calabrò offre al lettore, in pagine dense e cariche di quelle buone letture che ne caratterizzano una formazione non solo intellettuale ma anche, e soprattutto, civile.

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