MAZINGA ERA PALERMITANO
( Carlo Barbieri)
Pochi- ma davvero pochissimi – sanno la storia di un giovanissimo Palermitano che andò in guerra a soli vent’anni. Fu molto sfortunato, e non tanto perché avendo abitato per anni in una piccolissima casetta del borgo vecchio senza finestre e piena di fratellini dissero che era buono per i sommergibili, ma perché lo prestarono, unico caso di tutta la guerra, alla marina giapponese nel quadro di un programma di scambi fra le forze dell’Asse che vide in realtà solo un marinaio palermitano scambiato con uno del Sol Levante. Il sommergibile era quindi giapponese, e sui sommergibili giapponesi si parla ovviamente il giapponese. Perché allora presero proprio lui, se il programma di scambi prevedeva che gli scambiati parlassero perfettamente la lingua? Il fatto è che nostro amico era nato con gli occhi a mandorla, forse dono di un marinaio orientale sbarcato nel poco lontano porto vent’anni prima, ed era noto in zona come "’U Giappunisi". La cosa aveva ispirato alla madre un colpo di genio: corrompendo con la sua esperienza amatoria, più che con la sua bellezza, un maresciallo del reparto "Selezione" era riuscito a imboscare suo figlio come interprete italogiapponese. Tanto di giapponesi a Palermo da quando era scoppiata la guerra non se n’erano mai visti. Insomma fu così che il nostro amico si ritrovò imbarcato in un sottomarino giapponese, fatto per marinaretti bassissimi, con spazi che gli facevano rimpiangere il monolocale abusivo dove era vissuto.
Lo chiamavano Damu Shishirian, che significa "Muto siciliano", perché si rifiutava di parlare. In compenso a gesti se la cavava benissimo. Era benvoluto da tutti tranne che dal comandante Katana, che non per nulla voleva dire "spada" e non per nulla gli richiamava l’atavico odio fra Palermo e la città dell’Etna. Un giorno il Comandante Katana, incazzatissimo con l’Italia per avere mangiato spaghetti avariati regalo degli alleati, fra una visita e l’altra al bagno, decise di prendersela con l’unico italiano a bordo e se lo portò in sala comando. Il comandante Katana comandava con parole sibilate, non faceva e non ammetteva gesti, e quindi quando il nostro conterraneo ricevette un ordine dovette scegliere se tentare di eseguirlo o offrire la testa alla katana di Katana. Scelse ovviamente la prima soluzione. E il sommergibile finì sull’unico scoglio della zona. Si salvò solo i nostro concittadino nuotando per sette miglia, cosa in cui riuscì grazie all’allenamento gesticolatorio che gli aveva rinforzato i bicipiti. Approdò su un’isola dove trovò altri Giapponesi che lo accolsero amichevolmente e stavolta gli insegnarono la lingua, ma non solo: fra i compagni d’isola. c’era un grande disegnatore che gli insegnò i trucchi del mestiere prima di morire avvelenato dai succhi di piante tropicali dalle quali ricavava gli inchiostri masticando a lungo le foglie. La tecnica acquisita e la nativa creatività isolana fecero del nostro un grande artista. Ormai nipponizzato andò a vivere a Tokio dove, molti anni dopo, creò il suo personaggio di maggior successo, che volle chiamare con il nome che quei soldati che l’avevano accolto su quell’atollo sperduto nel Pacifico gli avevano dato: Mazinga. L’avevano chiamato così perché non sapevano pronunciare il suo vero nome: Matteo Inzinga. Una volta detto, e alla fine diventato veramente, ‘U Giappunisi".