L’epinicio per un eroe che chiude un’epoca

(Carmelo Fucarino)

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Novant’anni da quel 10 ottobre 1921, tra antifascismo e Resistenza, prassi didattica ed impegno politico. E se ne è andato anche Andrea Zanzotto, l’ultimo gigante della poesia italiana, un Nobel impossibile e negato, dagli anni delle avanguardie e della tragica scoperta della condizione esistenziale, della precarietà e dell’alienazione, del “male di vivere”, tra constatazione del labirinto ed elegia virgiliana del mondo rurale (labor omnia vincit), lui nel dialetto e nell’affabulazione materna, io nel perenne colloquio con il padre e con i miei prati perduti. Voglio proprio cominciare da quell’esame di coscienza, dall’affermazione dell’io come magmatica psiche, il ricordo della mia verginità poetica scoperta intorno ai Sessanta con quel doloroso Esistere psichicamente (Vocativo, 1957):

«da questo lungo attimo

inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,

da tutto questo che non fu

primavera non luglio non autunno

ma solo egro spiraglio

ma solo psiche,

da tutto questo che non è nulla

ed è tutto ciò ch’io sono»

Poi anche per me l’insegnamento e le domande che rodono in petto davanti a quelle crisalidi, il quid agam, che mi ha coinvolto in anni meno tragici della guerra, ma in quello sconvolgimento del ’68, io giovane fra giovani che proclamavano la loro ansia di cambiare il mondo. E poi negli anni del quotidiano, davanti a quei volti la domanda del cosa potesse importare di Omero e Virgilio ed Orazio, l’angoscia di pensarsi impreparato a quella sfida. Cosa stavo insegnando, come stavo forgiando uomini e donne del futuro?

O miei alunni, or madri e padri, frastornati da figli (o non forse da nipoti?), le mie lacrime per quello che non sono riuscito a donarvi, per quante mattine così (Ecloga IX. Scolastica, da IX Ecloghe, 1961):

«Ma che dirai a quelle anime di brina,

di arnia, a quel festante grappolo

che intorno al tuo cuore s’ingloba, e stordisce

di curiose energie la pur schiusa

aula che dà sul mai stabile greto?».

E, sì , quelle gelide aule di quella scuola:

«e nella scuola che vive

di quanto sa bearla l’infinita corrente,

nella scuola povera e nuova

tra candore di fogli»;

e le eterne angosciose domande dell’insegnare:

«b − Io forse insegno a tollerare, a chiedere

ciò che illumina

più nel chiederlo che nella risposta.

a − Tu forse insegni perché una risposta
hai generato in te. Sei poco,
un suono solo, una vocale, un nài,
un sí; da fare grande
come l’iddio, un mondo tutto
di microcristalline
affermative sillabe.
Oh, una sola risposta: e tutto
insegnerò, sed tantum dic verbo.»

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