Delirio e pace di Boris Godunov

(Carmelo Fucarino)

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Locandina del Teatro Municipal de Santiago

Sono 45 minuti appena di sua presenza sulla scena in un’opera che si sviluppa in una vicenda di 190 minuti. In questo canto di Borìs Godunòv, ultimo suo, si svolge e conclude un lungo travaglio interiore, l’analisi di un’intera esistenza, tra angosce e allucinazioni nel turbine della follia. Mi sovviene in questa peripezia psichica la notte di alternative della Medea di Apollonio Rodio, che decide di tradire per amore, ripresa dalla Didone virgiliana, la bilancia a cavallo della mezzanotte del delirio dell’Innominato, che diventa santo per un miracolo d’amore. Qui lo sviluppo è più tragico e doloroso, perché non c’è più altro tempo per rimediare, per risanare con la contrizione e il pentimento la ferita interiore, che ha mandato in corto circuito e ottenebrata la mente. C’è solo la percezione dell’orrore commesso, quel fantasma sanguinante che lo insegue, scintille mentali ed incubi di un bambino sacrificato all’altare della brama di potere. C’è un’uscita di scena, per la vestizione monacale di uno zar morente, quasi senza pentimento, perché lui stesso vuol convincersi del giusto e del diritto. Ripete al figlioletto: «Ora inizierai a regnare. Non domandare in che modo sono arrivato al trono. Non c’è bisogno che tu lo sappia. Tu regnerai di diritto, come mio successore, come mio figlio primogenito» (Atto IV, Quadro II).

Questa ammissione di incapacità lo salva, proprio perché è consapevole di «che lacrime grondi e di che sangue» il potere, cosa che tutti gli uomini di governo non vogliono sapere. L’omicidio è sacro nella guerra, punito con la sedia elettrica in pace. La scultoria essenza della lingua russa, la magistrale interpretazione di Ferruccio Furlanetto, Borìs redivivo, come l’autore, sublime nel canto e altrettanto nelle partecipazione emotiva del personaggio, faranno rimpiangere agli assenti di non avere voluto condividere questi minuti di intensa e straordinaria emozione e di grande eccelsa arte. Forse l’ora non canonica, – un vicino di fila: «Mai si era vista una prima a quest’ora» –, forse anche la durata che ha spaventato i “comodisti”, non è stato proprio un gran pienone, come si verifica immancabilmente per un Rigoletto o meglio per una lacrimevole Boheme, anche se il canto lascia a desiderare. Poi c’erano i ricordi di antichi appassionati che parlavano di sei ore e snocciolavano statistiche nostalgiche sui vari incantevoli quadri. Altri tempi! Rimane nella mente e nel cuore quell’uomo trafitto dall’angoscia che, come ogni uomo, cerca nel momento della fine la luce. Già la sua entrata in scena con quel concitato e ossessivo, «Via… Via» (Чур, чур!) e poi «Via, bambino» (Чур, дитя!) e ancora più agghiacciante «Via, Via! Chi dice: assassino? Non ci sono assassini. È vivo, è vivo il bambino». E poi altrettanto scioccante il racconto di Pimen, toccante resa di Marco Spotti del vecchio venerando pastore, cieco da bambino «così abituato alle tenebre che persino in sogno mi apparivano non cose visibili, ma solo suoni». E allora Borìs grida e si porta la mano al cuore, mentre i boiari si lanciano in suo aiuto: «Oh, soffoco, soffoco! Luce!» (Ой! Душно! Душно! Свету!). La luce, il sole. Così anche Ermengarda, la vittima ripudiata, che cerca il cielo, «giace la pia, col tremolo / guardo cercando il ciel.» (Manzoni, Adelchi, atto IV, Coro) o la mite Antigone che rimpiange che «né più a me infelice questo sacro occhio sarà lecito vedere del sol» (Sofocle, Antigone, 879-880).

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Questo mi è sembrato preferibile dire su questa stupenda coproduzione (al Teatro Municipal de Santiago a luglio revisione di Rimsky-Korsakov del 1908, Boris è Roberto Scandiuzzi, ma Marina ancora Anna Victorova, Regia, scene, costumi e luci pure di Hugo De Ana, assistente ai costumi Cristina Aceti, Direttore Konstantin Chudovsky), calibrata in tutto l’organico, con vocalità spesso eccezionali, un cast di tutto rispetto, tralasciando i costumi sgargianti e le sceneggiature splendenti (immancabili le quinte smaglianti e… semoventi), i giochi scenici e cromatici che in genere si sentono lodare all’uscita. Per coloro che amano la musica, le spiegazioni sono talvolta superflue, anche perché spesso sono sommarie, specie per un’opera così complessa per invenzioni orchestrali e vocali, legate alla musica popolare russa, per i vibranti temi che si espandono in leit-motiv, senza voler entrare nelle questioni dell’utilizzo di Puškin,e delle revisioni (due di Rimskij-Korsakov, suo amico nel Gruppo dei Cinque, e altrettante di Šostakovič, l’altra di Rathaus). Per inciso era quel popolo romantico alla fratelli Grimm, come diceva in una lettera a Ilya Repin: «È il popolo che voglio descrivere, lo vedo anche quando dormo, penso a lui quando mangio e quando bevo l’ho davanti agli occhi, nella sua interezza, grosso, grezzo e senza il minimo appello: e quale ricchezza spaventosa di possibilità e di immagini musicali esiste nel linguaggio popolare, quale inesauribile miniera rimane da scavare per portare alla luce ciò che è vero nella vita del popolo russo».Volevo rimarcare la scelta della seconda versione originale del 1872 dello stesso Modest Petrovič Mùsorgskij (8 febbraio 1874 al teatro Marijnskij di San Pietroburgo), ricordare la presenza costante dell’opera a Palermo, in questo teatro nel 1964 e al Politeama nell’1987.

Un invito per rinvenire coincidenze e sorprese, la lettura del dramma omonimo di Aleksàndr Sergeevič Puškin (1831), eroe romantico morto per un duello d’onore a 38 anni nel 1837, ma forse noto per le edizioni televisive della Figlia del capitano più che per il tema identico in La tempesta di Alberto Lattuada con Silvana Mangano.

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