Racconto di una tartaruga e di un cono gelato: originale ipotesi di lavoro tra impegno civile e riflessione critica

(Daniela Scimeca)

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Quartiere Zen

A volte dalla buona volontà e da una scommessa di pochi volontari nasce qualcosa da vedere, raccontare e condividere. E’ il caso del testo teatrale Il racconto di una tartaruga e di un cono gelato, che da un lato si pone come riflessione critica di un determinato contesto cittadino e dall’altro vuol presentare al pubblico gente comune, che nonostante abbia una quotidianità frenetica e piena, si ritaglia volutamente uno spazio in cui recitare per dire qualcosa in più ai soliti luoghi comuni. Uomini e donne non professionisti ritagliano dal fluire vitale uno spazio altro che diventa spazio di libertà per dire, denunciare e soprattutto cambiare ciò che sta attorno. L’idea nasce dal regista Franco Carollo all’interno di un progetto dell’Università Europea del Tempo Libero di Palermo. Il testo si configura più che altro come uno studio teatrale e porta in scena una quotidianità tragicamente normale: quella del quartiere palermitano Zen, fin troppo conosciuto nell’immaginario collettivo e volutamente isolato dal resto della città anche dal punto di vista urbanistico. I palazzi messi uno accanto all’altro, senza spazi comuni, senza verde, nessuna comunicazione, nessuna condivisione. Alcuni occupano le case abusivamente, altri aspettano in macchina che qualcuno esca e lasci un appartamento libero per occuparlo a loro volta. La realtà si mostra allo spettatore in tutto il suo degrado sociale e in tutta quella deprivazione culturale che miete le sue vittime di giorno in giorno.

E’ come in un presepe si posizionano sulla scena personaggi tipici: giovani donne che ostentano la loro accettata condizione, il piccolo boss di borgata che supervisiona con un binocolo in mano, una barista e persino un ausiliario del traffico che non punta mai gli occhi dove dovrebbe. Ne viene fuori lo spaccato vivo di una comunità segregata e violenta contro se stessa, i cui personaggi non riescono a venir fuori perché troppo invischiati da cattive abitudini e tradizioni che vengono tramandate da generazione in generazione senza un perché, senza neppure coscienza. La loro diventa condizione di prigionia fisica per la disposizione dei palazzi in questo quartiere dormitorio, ma anche e soprattutto prigionia data da un linguaggio troppo povero e mai adeguato a rappresentare la complessità della loro stessa realtà. Questo spaccato sociale con le sue contraddizioni, le sue storpiature si offre allo sguardo di un regista, personaggio arrivato da lontano, da un altro presepe, quello della cultura che si pone su un piano diverso. Il regista come un ingenuo giudice, guarda, ascolta, riflette, ma il suo è un punto di vista troppo alto per indagare veramente la vita, per scrutare l’animo nascosto dalle voci che vengono fuori dai palazzi. Chi arriva da fuori si trova spaesato e confuso, ne risulta l’impossibilità di descrivere questo microcosmo così affollato in cui le voci sovrapposte creano cacofonie incomprensibili che lo isolano dal resto del mondo. Si configurano dunque due mondi apparentemente lontanissimi e non comunicanti ma un vecchio padre entra in scena e dona un po’ di speranza. Lui ha provato a lungo la frustrazione dell’impotenza, ha troppe volte sentito su di sé il soffio penetrante e avvolgente del caldo vento di scirocco che sembra fermare il tempo e abbrutire le persone lasciandole dentro il loro guscio come tartarughe e li priva persino del piacere di un gelato che si scioglie immediatamente causando macchie indelebili e mette un’etichetta a “quelli col vestito sporco”. Ma nel degrado più evidente in cui la speranza sembra un’eco lontana, un sogno irraggiungibile, si può e si deve lavorare per un superamento, un miglioramento di se stessi e della comunità tutta. Questo padre, ormai avanti negli anni, invita la figlia a costruirsi un nuovo modello di vita, diverso da quello che ha intorno, la invita a mettersi le scarpe e iniziare un cammino fuori e dentro di sé. Un finale aperto alle riflessioni dello spettatore che su uno schermo vede passare tante paia di scarpe consunte dalla vita. Le scarpe, altra significativa metafora, indicano il percorso umano che soggettivamente va compiuto, un percorso di crescita, di maturazione che ci renda orgogliosi e sereni di ogni scelta.

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