Pippo Pappalardo poeta dialettale di Sicilia

( Gabriella Maggio)

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Mercoledì 23 Ottobre 2013 a Villa Malfitano Whitaker è stata presentata la raccolta di poesia Di mia a tia di Pippo Pappalardo, edita da ILA Palma Mazzone. Organizzatori dell’evento la Società Dante Alighieri e l’Ottagono Letterario. La presentazione del libro è stata curata da Domenica Perrone italianista, Giovanni Ruffino dialettologo , Gianni Nanfa attore e Francesca Luzzio docente nei licei. Per i lettori di Vesprino ho rivolto alcune domande all’autore che si è rivelato anche pittore.

D: Scrivere e dipingere sono linguaggi per un unico tema?

R: Nella pittura, così come nella poesia, ho privilegiato tematiche legate alla mia terra. Il mio stile è «figurativo». I colori sono vivaci e gli oggetti dei miei quadri sono invasi dalla luce. Si può dire perciò che i temi ispiratori della mia poesia e della mia pittura sono la tradizione e il sole della Sicilia. Ho sempre nutrito una grande passione per la pittura. Agli inizi degli anni Ottanta ho sentito l’esigenza di perfezionare ciò che, fino ad allora, era solo un’inclinazione. Ho seguito un ciclo di lezioni presso la galleria d’arte «Il Cenacolo» (Via E. Amari) del pittore Vincenzo Vinciguerra. Da qualche tempo non dipingo più ad olio perché i diluenti mi provocano problemi respiratori. Mi conforto pensando che, dopo essermi occupato di musica (suonavo la chitarra) e di pittura, è venuto il tempo di occuparmi di letteratura dialettale. Peraltro due miei quadri fanno da copertina alle suddette due opere letterarie.

D: Quante raccolte di poesia ha pubblicato?

R: Negli ultimi due anni ho pubblicato due sillogi. La prima è edita da Aulino (Sciacca) e ha titolo «Occhi ‘i pueta». La seconda, per i tipi di I.l.a. Palma (Palermo), s’intitola «Di mia a tia». Nella prima silloge è contenuta la lirica «Cantu dulurusu – Vint’anni ddoppu la morti dê iùdici Falcuni e Bborsellinu». Questa lirica ha vinto due primi premi, a Roma e a Sciacca. Essa è scaturita dal ricordo del giorno in cui, subito dopo la morte del giudice Falcone, Palermo si riempì di migliaia di manifestanti che chiedevano un intervento più deciso dello Stato nella lotta contro la mafia.

D: Perché pensa che la lingua siciliana sia un patrimonio che si sta perdendo?

R: Vorrei innanzitutto precisare che non si deve parlare di «dialetto siciliano» né, tantomeno, di «lingua siciliana». Non esiste un dialetto standard, una koinè del dialetto siciliano; infatti il lessico, la pronuncia e la sintassi di quest’idioma variano da zona a zona. Sarebbe più opportuno parlare di «dialetti». Per non complicare la discussione parlerò di sicilianu, intendendo con questo termine il «denominatore comune» ai dialetti delle varie zone geolinguistiche della Sicilia, cioè il substrato comune a tutti i dialetti siciliani. Ciò premesso, è innegabile che il sicilianu è un linguaggio che rischia l’estinzione; è stato evidenziato anche da Ignazio Buttitta in una sua lirica del 1970 nella quale il dialetto è assimilato a una chitarra ca perdi na corda lu iornu. Fra le cause sta in prima fila la difficoltà che incontra chi voglia scrivere in dialetto. Non esiste un sistema ortografico condiviso. I vocabolari più noti risalgono alla metà dell’Ottocento. L’unico vocabolario moderno, edito dal C.S.F.L.S. (Centro di studi filologici e linguistici siciliani) è in 5 volumi e ha un certo costo. La grammatica e la sintassi variano in funzione del tempo e dei luoghi; pertanto esse hanno valore descrittivo e non normativo. Inoltre i pregiudizi contro questo linguaggio non si sono ancora spenti. Il dialetto è tuttora considerato una lingua povera e, per ciò stesso, adatta alle persone semplici più che agli intellettuali o ai letterati. A ciò si aggiungano quel cinema e quella TV che hanno usato il nostro dialetto per mettere in ridicolo la Sicilia o per crearne stereotipi negativi. Non si può infine sottacere dell’avversione da parte di una Scuola che ha sempre anteposto il rischio che il dialetto ostacolasse l’apprendimento della lingua italiana ad ogni altra considerazione di natura culturale o linguistica. La conclusione è che il sicilianu è parlato sempre meno dai giovani e nelle grandi città, anche se resiste nei piccoli centri e nelle campagne (spopolate!). Continuando così, il sicilianu fra qualche generazione potrebbe ridursi a una lingua morta, al pari del greco antico.

D: Ci sono segnali che lasciano sperare in un risveglio del dialetto siciliano?

R: I segnali di risveglio ci sono. La nostra Università, così come quella di Catania, è in prima fila nello svolgimento di attività a salvaguardia della cultura e delle tradizioni siciliane. Quest’anno si è svolto presso la Facoltà di Lettere un corso rivolto a un centinaio di docenti delle scuole medie inferiori e superiori della Sicilia occidentale. Un corso analogo ha interessato i docenti della Sicilia orientale. Il C.S.F.L.S. ha stampato una splendida opera in 2 volumi dal titolo «Lingue e culture in Sicilia», curata dal prof. Giovanni Ruffino e redatta dai maggiori studiosi del nostro dialetto. L’A.L.S. (Atlante Linguistico della Sicilia) continua a sostenere iniziative per la conservazione e la rivalutazione del sicilianu. Sono tanti i poeti che mantengono il gusto di scrivere in dialetto, riconoscendo a questo linguaggio una particolare forza espressiva. Ci sono molte riviste che continuano a pubblicare poesie dialettali. Nei concorsi letterari è spesso presente la sezione dialettale. Bisogna insistere! Bisogna ricordare ai siciliani che il dialetto è, per molti di loro, la prima lingua, è l’idioma in cui riecheggia la voce dei genitori, dei compagni di scuola, degli amici di gioventù. Bisogna ricordare che il dialetto siciliano vanta otto secoli di letteratura e che è stato adoperato da illustri poeti quali Antonio Veneziano, Giovanni Meli, Nino Martoglio, Alessio Di Giovanni, Ignazio Buttitta, etc. Bisogna evidenziare che nel dialetto c’è la storia della Sicilia perché le parlate dialettali sono intrise di termini che ci riportano alle varie dominazioni: greci, romani, bizantini, arabi, normanni, francesi, spagnoli, etc. Se tutte queste attività non cedono alle intemperie della crisi economica e dell’incuria di molti nostri corregionali, si può certamente sperare in un risveglio del patrimonio linguistico della Sicilia.

D: Mi parli della sua ultima raccolta «Di mia a tia».

R: È un volumetto di 39 poesie dialettali nato dalla mia reazione ai pregiudizi di cui ho parlato sopra e rappresenta il mio contributo al risveglio dell’attenzione dei lettori verso il dialetto e verso la letteratura dialettale. Il libro è diviso in due sezioni: le poesie intimiste e i «sunetti du babbìu». In tal modo ho inteso dire che la poesia può servire ad esprimere il mondo interiore del poeta, ma può anche servire per fini educativi, per divertire, per trattare tematiche sociali, per mettere in ridicolo i difetti umani. Mentre nella prima sezione i toni lirici prevalgono nella rievocazione di stati d’animo, momenti e personaggi del mio vissuto, nella seconda sezione i componimenti diventano satirici, umoristici, didascalici. Insomma: nella seconda sezione ogni sunettu du babbìu, per dirla con Jean de Santeuil (non con Orazio, come alcuni erroneamente credono), castigat ridendo mores. Le poesie sono, per la maggior parte, sonetti. È un richiamo alle nostre tradizioni. Non dimentichiamo infatti che il sonetto fu inventato dalla Scuola Poetica Siciliana di Federico II nel XIII secolo. I miei componimenti sono rispettosi della metrica; anche questo è un ritorno alla tradizione, direi un’inversione di tendenza rispetto al versiliberismo che caratterizza la poesia contemporanea. La scrittura del mio libro è stata preceduta da tre anni di intenso studio del dialetto su testi scientifici prodotti dal C.S.F.L.S. e dall’A.L.S. Il vocabolario a cui faccio riferimento è il VS. Esso tiene in massimo conto l’aspetto fonetico delle parole, più che quello etimologico; pertanto il VS propone alcune scelte coraggiose, come quella di raddoppiare la consonante iniziale di tutte le parole che cominciano per b (es. bbeddu, bbonu). Ne è nato un testo che molti giudicano «agile di piacevole lettura», adatto in particolare agli studenti che si interessano del dialetto siciliano. Io sto continuando a scrivere, sia in dialetto sia in lingua. Ho tante cose da dire e mi accorgo con piacere che i lettori cominciano ad apprezzarmi. Scrivo il sicilianu pensando in sicilianu e da siciliano. Il favore che il libro sta incontrando fra il pubblico dei lettori mi conforta sulla bontà delle mie scelte e mi ripaga degli sforzi sostenuti nell’approfondimento di un linguaggio che mi sta molto a cuore.

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