Alleluia! I Siciliani in scena

(Carmelo Fucarino)

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Lo scandalo del bacio “rubato” – Foto Teatro Massimo

Dall’apertura della stagione teatrale sulla stampa palermitana, con più spavalderia da un foglio provinciale, non si è fatto che innalzare alleluia e cantare Te Deum di ringraziamento e di vittoria per un fatto che si ritiene unico e straordinario, l’occupazione delle scene dei teatri principi di prosa e di lirica da parte di Palermitani di ritorno. E si è voluto decantare il fenomeno nell’alveo della cosiddetta fuga degli ingegni e del loro accoglimento nel loro humus naturale. Gloria ai buoni eccezionali patron della cultura palermitana, si suppone anche politici, che hanno posto alla direzione di tali strutture palermitani che a loro volta hanno chiamato ad operare tutti i palermitani, grandi all’estero, cioè per dire sulle scene da Roma in su. A parte che vantare questa sventagliata di siciliani di ritorno sa molto di provinciale, l’artista è tale, qualunque sia la sua patria di origine, la questione si dovrebbe porre in termini diversi. Si può essere grande artista, se non si è superato l’esame della industria selettiva del Nord? Si può essere grandi Abbagnato o Dante, se non si è passati dalla Scala, o Lo Cascio senza le scene del Nord e un’infinità di film là realizzati? E se un grande artista non ha avuto questa chance, questa “fortuna”, possiamo dirlo, pur essendo grandissimo?

E perché ora si vanta questa occupazione delle scene da parte di Palermitani e di successi siderali? Quando il teatro Garibaldi cade a pezzi e ed è stato chiuso, nonostante le proteste ed inutili esborsi finanziari, quando la stessa sorte tocca al glorioso Bellini o Regio Carolino del 1726 e si paventa o forse minaccia per soldi la chiusura del Biondo. Non sarebbe più glorioso creare le condizioni perché il teatro Biondo e il Massimo dessero spazio e gloria alle nostre leve locali per lanciarli poi con tale gloria a stupire le scene di Roma e di Milano? Che vanto si può spacciare di glorie forgiate dalla scoperta e valorizzazione della loro genialità all’estero? Intanto si sono colonizzate le nostre scene con piccole compagnie di confine e poi ci si vanta che altri hanno scoperto i nostri iperdotati. Fortuna che ci sono stati i vivai dei laboratori scolastici artigianali, primo cronologicamente e non solo il Liceo Garibaldi che ha dato Lo Cascio e Gioè. Si tratta dello stesso provincialismo del ritorno del chirurgo che esibisce una permanenza in USA o in Germania o in Francia, ma che per lotte baronali ha dovuto dimostrare all’estero che le nostre Università non sono ultime a nessuna, che determinati parametri di valutazione, come le fioriere dei campus, non dimostrano la genialità dello studioso che può creare in cantina come i miracolosi ragazzi di via Panisperna. Oggi si innalzano le somme laudi ad Emma Dante, un solo, misero “diretto da” per Gabriele Ferro. Almeno gli si sono risparmiati i fuori opera inoperosi, come avvenne al direttore della recente Cenerentola. Un coro imbarazzante di addetti alla stampa. Che fortunatamente non sono passati in mezzo al “popolo” dei reali fruitori, hanno sostenuto con meriti la “passerella”, si sono amichevolmente intrattenuti con i big del potere e del parterre, assessori e dirigenti vari, che vanno e vengono stagionalmente, ma anche con uomini a latere di questo nuovo finale indirizzo guttusiano. Mi perdoni Tutino. Per carità, stavolta, era l’ora, si è voluto dimostrare che tutti sono geni in patria, se ritornano da trionfatori. E a loro si deve l’arco di trionfo. Prima con Rancatore, ieri sera con Dante. Certo che contro la sua Carmen là si levò, si dice, “l’ira funesta dei loggionisti”. Ma tutto entra nel circo mediatico. Non per nulla i trenta attori-mimi-danzatori (omettiamo il nome di un giovane danzatore citato, per amor di carità), fuori opera.Perché di questo si tratta, di circo mediatico. Si comincia con dei “tizi” che gettano fogli di musica sulla scalinata, indifferenti, davanti a indifferenti dame e cavalieri in gran gala, che tentano anzi di scansarsi da questi lanci di tovaglioli. Un tempo si diceva coup de théâtre. Questo è stato il saggio della volontà precipua di stupire, di alludere ed interpretare con richiami il tessuto narrativo dell’opera. Un grande critico di un grande quotidiano attacca sodisfatto che «il primo marameo ai rituali della lirica è il lungo prologo di teatro-danza con saltimbanchi e giocolieri, etc.». Gode dell’altra bravata, il «balletto in mutande e reggiseno, che a dispetto del secondo indumento, coinvolge sia uomini che donne», naturalmente esalta la grande invenzione delle “sedie volanti”. Che altro dicono ai palermitani non solo per la celebre via. Titolo edificante, “Danze, colori e lingerie”. Perciò gli applausi scroscianti, “addirittura trionfali” e i dieci minuti di applausi. Sarebbero potuti durati ancor di più. Senza nulla togliere alla bravura dei musicisti che hanno avuto per la prima volta l’onore del palcoscenico, confinati in eterno nella “fossa” o “golfo”, anche se divinamente “mistico”. E i cantatori? Ma hanno qualche importanza? Chi sono stati? Brutti tempi per i musicisti la cui musica è diventata un semplice pretesto per contorsioni di materia grigia e lussuose e criptiche interpretazioni scenografiche. Perché tutti ormai vogliono alludere, come se quel deficiente di spettatore non potesse da sé solo capire i reconditi significati della vicenda, le rivelazioni che l’autore ha voluto nascondere nei temi narrativo e musicale. L’ineluttabile citazione! Ma siamo sicuri che Strauss volesse significare l’uso degli strumenti musicali per accendere i falò con il coro di fanciulli, Gebts uns ein Holz, “Dacci la legna” (stupendo il valkyriano  Maja maja mia mö)? E i trilli nervosi dei violini ad esordio di quella notte di magia, Feuersnot, “l’assenza dei fuochi”, l’incantesimo dell’ottavino e le insistite citazioni wagneriane e il folklorismo di Monaco nella leggenda della casa disabitata e del gigante, e l’aspro sarcasmo contro i suoi concittadini, borghesia “ottusa e filistea”, l’ironia sempre circolante per tutto il poema, l’innocenza briosa e birichina dei bambini, l’aria civettuola delle fanciulle, il senso di immobilità dell’assenza. E la rivoluzione della musica, difficile, innovativa, in alcuni casi assordante di ritmi e modi wagneriani, qualche volta di un tedio mortale come il pomposo monologo di cento versi. Con grande dispiacere per i toni trionfalistici, la musica e Gabriele Ferro avrebbero meritato più attenzione rispetto alle trovate da avanspettacolo. Si stava parlando di Richard Strauss, alla seconda opera a trentasette anni (non proprio giovanile, signori), di un’epoca musicale di trapasso, di un tipo particolare di creazione operistica, che si sviluppa dal poema sinfonico, il “poema cantato”, su una leggenda del solstizio e di S. Giovanni in una epoca imprecisata, nata da una vignetta boccaccesca del 1843 sull’amante sospeso in un cesto (reminiscenza socratica che mi parrebbe più dilaniante di una sedia di ufficio) e sullo scandalo del bacio francese, rappresentato a Dresda nel 1901 (a Vienna nel 1902 diretta da Mahler), negli anni successivi ad Also sprach Zarathustra e premonitore del vernacolo di Rosenkavalier. Forse basta, perché questo mi permette lo spazio di un blog. A proposito di fuochi e solstizio, un falò nella notte, l’apertura del teatro-cantiere Garibaldi per pervicacia di Matteo Bavera e dell’Unione dei Teatri d’Europa, circuito di Strehler e Lang, e soprattutto l’annunzio di Orlando e la volontà di Francesco Giambrone con il bando-concorso di mettere a disposizione di giovani artisti residenti immobili in forma gratuita o quasi, un centinaio di siti per progetti di pubblica utilità sociale e culturale. Se son rose, se questa è rivoluzione artistica! Sotto Palermo dei giovani e della cultura, datti sotto, o Palermo, o cara! È la tua occasione.

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