GENTE INCORREGIBILE QUESTI PALERMITANI

(Francesco Paolo Rivera*)

Nei secoli XVI° e XVII° a Roma, il popolo, che si opponeva al dispotismo dei propri governanti, aveva l’abitudine di collocare su “Pasquino” componimenti satirici, spesso in versi, (polizze o pasquinate) nei confronti di personaggi illustri, alti prelati, cardinali e persino nei confronti del Papa, e, sicuramente, molti, visitando la Città eterna, avranno fatto un salto in piazza Pasquino, ove sull’angolo di Palazzo Braschi fin dal 1501 si trova istallata la statua di età ellenistica (raffigurante forse Menelao nel corpo di Patroclo o Aiace nel corpo di Achille) ribattezzata “Pasquino”, che i popolani vestivano con costumi carnascialeschi in occasione di feste popolari, ma che, con l’andar dei tempi, divenne inconscio presentatore dei malumori popolari. Pochi sanno che anche a Palermo esisteva tale usanza. Anzi, a Palermo, oltre ad attaccare manifesti sulle statue marmoree dei “Genii di Palermo” (1) e sulla statua bronzea di Carlo V° in piazza Bologni (2), solevano “pubblicizzare le loro opinioni” (spesso in contrasto con quelle dei “potenti”) anche su altri luoghi più frequentati della città, e addirittura, talvolta, affidando ai monelli di strada, dietro compenso di qualche spicciolo o di qualcosa da mettere sotto i denti,  il compito di “abbanniare” epiteti “inneggianti” al comportamento dei potenti.

Certo, se scoperti, si finiva alla Vicaria, nelle mani del boia, e se fortunati (ma soprattutto i “poco abbienti”) per una cura a base di bastonate o di frustate, ma per i meno fortunati (i “nemici giurati” dei potenti e, soprattutto per coloro che possedevano beni al sole, colpevoli o non)  le cure erano molto più efficaci, detenzione e, in qualche caso, anche  pena di morte, ma – ciò che era più importante – confisca dell’intero patrimonio del malcapitato, di modo che. oltre all’eliminazione fisica del colpevole, si otteneva l’incremento delle “entrate”. Spesso le critiche, le proteste, le minacce venivano affidate a particolari “travestimenti” ai quali venivano sottoposte le statue. La statua del “Genio della Rivoluzione”  (3), per il valore simbolico assunto in conseguenza dei moti che precedettero il Risorgimento, era la preferita dal popolo: il “vecchio Re” magrissimo, seduto maestosamente, con un grosso serpente attaccato al petto, con i piedi nell’acqua della fontana sottostante, raffigurava il “Protettore laico della Città”; la gente si soffermavano ai suoi piedi per chiacchierare, per discutere, per criticare  … e spesso tali critiche, proteste e minacce,  trascritte su un cartello, venivano affisse sulla statua..

Talvolta si affidavano le critiche, le proteste, le minacce a particolari travestimenti ai quali venivano sottoposte le statue. Se dopo i tumulti contro il Vicerè Fogliani (4) il “vecchio re”, veniva rivestito con giamberga (5), parrucca, nicchio (6) e spada, si intendeva che riaffermasse la propriia sovranità; se ricoperto di gramaglie, (come nel caso dell’uccisione di tre giovanetti colpevoli, veri o falsi, della sommossa), era perché il “vecchio re” piangeva, assieme al suo popolo una ingiustizia; quando i suoi vestiti e il viso venivano imbrattati con pasta e pane era perché deplorava i pessimi commestibili; quando veniva imbrattato con lancio di fichi era perché si riconosceva coperto di ignominia per la vigliaccheria dei palermitani di fronte la tirannia del Governo e la inettitudine del Senato.

Anche la statua dell’Imperatore Carlo V° a piazza Bologni non era risparmiata dal malumore della cittadinanza, che non rischiava, però, di oltrepassare questa piazza e tanto meno di dirigersi verso il Palazzo Reale, in quanto i palazzi del “potere” erano presidiati dalla Guardia Svizzera, a tutela del Vicerè. Oltre a servirsi dei sistemi sopra illustrati, il popolo non mancava di commentare satiricamente gli avvenimenti. La elezione dei giudici capitaniali, nelle persone di Emanuele Lo Castro, Serafino Castello e Pasqualino suggerirono l’affissione sul “Genio del Garraffo” (7): “mircatu di carni grassa di Crastu pasqualinu (con riferimento a Lo Castro e a Pasqualino) pasciutu cu li malvuzzi di Castell’a mari (con riferimento al nome di Serafino Castello ma con l’intendimento di ricordare a tutti che il “Castello a mare” era il carcere dei nobili e dei civili). In conseguenza della nomina a Pretore del Principe Grifeo di Partanna (8), che aveva la fama di sperperare i soldi delle casse del Senato, sulla statua del  “Genio di Palazzo Pretorio” (9) (Palazzo di Città) si trovarono attaccate quattro P.P.P.P. iniziali delle parole “Poviru, Palermu, Preturi, Partanna”. Una vecchia giamberga attaccata ai rastrelli servì a indicare la contrarietà al progetto di un nuovo mercato che il Vicerè Domenico Caracciolo (10) voleva, a tutti i costi, impiantare in piazza Marina, ove era vivo il ricordo delle carceri del Sant’Uffizio (palazzo Speri); e, infatti, il mercato rimase deserto. Nel 1793, il popolo affamato per la mancanza di grano, lanciava i suoi anatemi contro il Pretore Francesco Cannizzaro, duca di Belmurgo, definito usuraio, arricchitosi col denaro delle casse comunali, perchè non aveva previsto per tempo gli effetti della carestia, e i monelli del mercato di Ballarò, gridavano per strada:

cu la fidi e la spiranza

un guastidduni ‘un jinchi panza

Preturi Cannizzaru

ha misu Palermu cu ‘na canna a li manu

E l’anno successivo, anche se la carestia si era esaurita, le cose non andavano affatto bene, infatti il pane era stato ridotto di peso. Di chi la colpa? … del Pretore, del quale  il popolo auspica la morte. E considerato che il Vicerè  Francesco Maria Venanzio d’Aquino p.pe di Caramanico (11) ne giustificasse l’operato in sua difendeva, ecco il commento del popolo in un cartello esposto al Pretorio:

lu Vicerre supra la vara staja

lu Piritura sutta la mannara

Successivamente al decesso del Vicerè d’Aquino, il Governo, presieduto da Filippo Lopez y Royo, Presidente e Capitano Generale del Regno, Arcivescovo di Palermo e Monreale, e Vicerè di Sicilia, ordinò, nell’evidente tentativo di “alleggerire” le tasche dei cittadini abbienti, di depositare alla Zecca tutti gli ori e gli argenti posseduti, in cambio di moneta sonante.  Il 16 aprile 1798, il popolo, attraverso un cartello attaccato alla colonna del Palazzo del Comune, enunciava la propria determinazione in ordine all’ordinanza vicereale:

o v’aggiustati, tiranni, la testa,

o di li morti faremo la festa,

e chi vuliti impoveriri a tutti?

Chi oru? chi argentu? Un ca…!

Il popolo non si interessava soltanto alle questioni interne, ma era pronto a commentare anche l’attività politica “internazionale”. Il Governo Napoletano, in preda al panico per la presenza della flotta francese, che nel Mediterraneo teneva gli occhi puntati su Malta, richiese e ottenne cannoni, soldati e danaro; però i siciliani parteggiavano per questi ultimi, e puntualmente il 21 giugno apparve appeso alla colonna un cartello sul quale era scritto:

c….! vinniro li gaddi, addiu gaddini!

Addiu massa, canigghia e puddicini!

dove i galli erano i francesi, le galline i napoletani, la massa la congrega governativa e la canigghia (crusca) la mangiatoia dello Stato, entro la quale i napoletani “beccavano”; e puntualmente, dopo poco, apparve il commento:

addiu massa, canigghia e puddicini!

Minchiuni! Ch’è grossa! ‘Na vota si mori!

per esprimere la indifferenza dei siciliani di fronte alle conseguenze delle minacce francesi.

Re Ferdinando ottenne una vittoria sui francesi, ma i palermitani, che consideravano i napoletani “intransigenti estremisti (giacobini)”, tutti, compreso San Gennaro; attribuirono la vittoria, non al miracoloso San Gennaro, ma a Santa Rosalia, esprimendo la loro opinione in versi:

T’haju fattu la varva, o San Ginnaru.

Giacchì t’ha fattu giacubino amaru,

tradituri, putruni e da quagghiaru,

viva, dunca, Rusulia e non Jannaru!

La abitudine di criticare il prossimo e specialmente l’abitudine di mettere alla berlina i Governanti è una usanza antichissima, tuttavia quando gli “interessati”  ne venivano a conoscenza, allo scopo di salvaguardare l’ordine pubblico e per difendere soprattutto la propria dignità personale, ricorrevano puntualmente a bandi e a comandamenti severi, ripetendo, periodicamente, le minacce emesse, in occasioni di analoghi precedenti avvenimenti. Vale la pena di riportare qualcuna di tali ordinanze. In conseguenza del tumulti contro il Vicerè Fogliani (sopra citati), l’Arcivescovo Filangeri  Presidente del Regno, ordinava: “che nessuna persona di qualunque ceto e condizione nelle private conversazioni in casa, nelle piazze, nei teatri, nelle caffetterie, nelle sagrestie, nelle chiese, nei conventi, nelle congregazioni osasse ricordare i fatti avvenuti, nessuno formare canzoni, sonetti, satire, leggende.” Dieci anni dopo, il Vicerè Caracciolo, stanco di essere preso in giro da frizzi e sberleffi di ogni tipo, e presumendo che gli autori di tali satire appartenessero prevalentemente alle classi nobile e civile, vietò “a qualunque persona di qualsiasi grado, ceto e condizione si fosse, il poter comporre, pubblicare, spargere o affissare o scrivere tali libelli e cartelli infamatori e contumeliosi, né in versi né in prose, né in figure esprimenti il carattere, né in satire, né in pasquinj, né in qualunque altra guisa”, promettendo premi da trecento onze “a chi siffatti delitti segretamente denunciasse”. E malgrado avesse mandato in carcere alcuni nobili uomini politici palermitani (come Vincenzo di Pietro, Ugo delle Favare e Gaspare Palermo), pare che non abbia trovato la disponibilità da parte di delatori. Evidentemente non c’erano interessati alla taglia di trecento onze (omertà o mafia?), anzi addirittura, pare che, fino al gennaio 1786 (data di partenza da Palermo del Vicerè), i libelli continuarono a raggiungerlo, non solo in dialetto siciliano, ma anche in italiano e in latino.

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* Lions Club Milano Galleria -108Ib-4

1)“Genio di Palermo” è il nome che si dava al nume tutelare della città in età preromana, trasformato nel tempo in “Protettore laico della Città”, tale immagine fu inserita nello stemma dei Giurati della città nel XV° secolo.

2) Nel 1535, l’imperatore Carlo V° d’Asburgo, reduce dalla vittoriosa spedizione di Tunisi, passò da Palermo. Allo scopo di commemorare tale avvenimento fu eretto, nel 1631, il monumento in bronzo scolpito da Scipione Li Volsi, che raffigura l’imperatore, vestito da guerriero antico, con a fianco la spada. L’imperatore si appoggia con mano sinistra a un bastone di comando, mentre con la destra presta il giuramento di fedeltà alla Costituzione … anche se i vecchi, incorreggibili palermitani dicono che la mano destra dell’imperatore indicasse il livello della m…. a Palermo!

3) Altrimenti denominata “Fontana del Genio” o “Genio del Molo” o “Genio della Fieravecchia”, di autore sconosciuto scolpita in marmo nel XVI° secolo;

(4) Giovanni Fogliani Sforza di Aragona – 1697 – 1780, nominato Vicerè di Sicilia, nel 1772-1773. In occasione di una carestia, la popolazione di Palermo affamata, ripose la sua fiducia in Cesare Gaetani P.pe di Cassaro, Pretore, Capo del Senato, ma in seguito alla morte di quest’ultimo (per una operazione eseguita dal chirurgo del Fogliani)  si rivoltò contro il Vicerè sospettato di combutta con gli accaparratori del grano, e lo costrinsero a fuggire a Messina;

(5)  finanziera, redingote;

(6)  cappello a tre punte;

(7) altrimenti denominata “Genio di Palermo al Garraffo” o più semplicemente “Palermu lu Grandi”, scolpita in marmo di Carrara intorno al 1483 da Pietro de Bonitate;

8) forse si trattava di Benedetto II° Grifeo, sesto p.pe di Partanna, Capitano Giustiziere e Pretore di Palermo nel 1747 (fece erigere al Foro Italico un monumento-obelisco nel 1784). Il dubbio sulla identità deriva dal fatto che i componenti della famiglia Grifeo ricoprirono sempre cariche politiche in Sicilia; dal 1740 al 1747 era Pretore di Palermo Gerolamo I° Grifeo quinto p.pe di Partanna;

9) altrimenti denominata più semplicemente “Palermu u nicu” (per distinguerla dalla precedente statua), scolpita da anonimo in marmo di Billemi nel XV°-XVI° secolo. Sul bordo porta la scritta latina “Panormus conca aurea suos devorat alienos nutrit” (Palermo, conca d’oro, divora i suoi e nutre gli stranieri;

10) Marchese di Villamaina – 1715-1789, uomo politico, svolse attività diplomatica per il Regno di Napoli, fu Vicere di Sicilia dal 1781 al 1786, tentò – senza riuscirvi – la realizzazione del catasto immobiliare siciliano;

(11)   1738 – 1795, ambasciatore del Re di Napoli a Londra e a Parigi, poi Vicerè     di Sicilia.

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