ALTRO ANNO, LO STESSO RITO A SIRACUSA

(Carmelo Fucarino)

A scena calata, almeno per me, d’obbligo una riflessione su questo 55° Festival del Teatro greco di Siracusa. Ha ormai una veneranda età per una istituzione che nacque da privata associazione e tra alti e bassi, tra passaggi di direzioni e di enti promotori, tra eccelsi direttori e partecipazioni di mattatori del teatro italiano può dirsi ancora giovane e florida. Con i suoi belletti da signorina e le sue frenesie e ribellioni giovanili. E soprattutto senza cambiare pelle, nella linea dei suoi inventori. Forse un elenco secco può dir poco ai giovani, ma io voglio riportarlo lo stesso, i media possono dare personalità ai grandi protagonisti che calcarono questa scena, rivivendo in traduzione e in chiave moderna la geniale creazione della tragedia greca, unica e mai più ripresa. L’unico tentativo di quel gruppo della Camerata de’ Bardi, la Camerata Fiorentina che si riunì nel palazzo dei Bardi dal quel 14 gennaio 1573, fra i quali Vincenzo Galilei, padre di Galileo, Caccini, Peri, Rinuccini, tentando di farla rivivere, di risuscitare un morto secolare, che aveva già in età alessandrina semplici riedizioni, inventarono l’opera moderna, il teatro in musica. Sempre cominciando da quella Euridice. Ecco la storia di questo teatro, di quel rudere depredato dal nostro Carlo V, quello dei giganti saraceni di Porta Nuova, che usò pietra e marmi per costruire le fortificazioni di Siracusa. Un semplice elenco: Annibale Ninchi, Elena Zareschi, Vittorio Gassman, Valeria Moriconi, Salvo Randone, Glauco Mauri, Elisabetta Pozzi, Lucilla Morlacchi, Giorgio Albertazzi, Ugo Pagliai e Piera Degli Esposti. Poi i registi eccezionali come Irene Papas, Krzysztof Zanussi, Mario Martone, Orazio Costa, Antonio Calenda, Luca Ronconi, Peter Stein. Solo tre tragici, pervenuti con opere intere, Eschilo Sofocle Euripide (su 150 tragediografi noti di nome e 180 comici), una sola trilogia l’Edipodia di Sofocle. E di questi autori le traduzioni e le letture teatrali, a cominciare dal classico insuperabile Ettore Romagnoli alle moderne riscritture di grandi poeti e insigni classicisti, come Pier Paolo Pasolini, Edoardo Sanguineti, Salvatore Quasimodo, Vincenzo Consolo, Dario Del Corno, Guido Paduano, Maria Grazia Ciani, Umberto Albini e Giovanni Cerri. Presidenze da Gargallo a Pace, Cantarella, Monaco, Albini fino ai sindaci di Siracusa. Tutto questo dall’idea del conte Mario Tommaso Gargallo, che, fondata nel 1913 l’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico), su questa gradinata devastata volle rievocare le glorie di questo teatro, tanto per indicare un fatto eccezionale, la presenza nel 476 a.C. Eschilo, con le sue Etnee per la fondazione di Etna e i Persiani, a scorrere 2.389 anni prima, ad oggi 2.495 anni fa. Nel fatidico 16 aprile 1914, non poteva essere altri che il travolgente capolavoro Agamennone a risuonare su quelle pietre consunte, nella traduzione dell’esperto grecista Ettore Romagnoli (tradusse tutto il teatro greco, tragedie e commedie) e addirittura con sue musiche dirette da Enrico Romano, con le scenografie del maestro Duilio Cambellotti e con i costumi di Bruno Puozzo, collaborazione che avrebbe avuto un lungo seguito nelle riprese allora biennali. Le più gettonate, probabilmente per l’impatto emotivo e cavallo di battaglia di grandi attrici, la Medea e l’Antigone, di pari passo con l’Edipo. Soltanto nel 1927 esordì la commedia con le Nuvole di Aristofane, sempre con traduzione e direzione artistica di Ettore Romagnoli, questa volta con musiche di Giuseppe Mulè, scenografia e costumi di Duilio Cambellotti, coreografie di Valerie Kratina, i grandi interpreti Gualtiero Tumiati, Oscar Andreani, Fulvio Bernini. Da qualche anno le rappresentazioni, divenute annuali, vogliono esaltare un centro di interesse. Dicevo già che oculata e attiva è la stata la scelta delle donne e la guerra con quelle opere che ruotano, come rappresentazione, intorno alla seconda fase della micidiale guerra del Peloponneso (in tre fasi dal 431 al 404 a.C.), che ha come protagonista la dorica Siracusa (415-414 a.C.), titanica contro la ricca e potente Atene del post Pericle, come esordiva Tucidide nella sua storia (I, 1, 2): «Certo questo è stato il più grande sommovimento che sia mai avvenuto fra i Greci e per una parte dei barbari e, per così dire, anche per la maggior parte degli uomini.». Era la lotta tra due leghe, quella Attica e quella Peloponnesiaca, le reciprocamente odiatesi in lotta per l’egemonia, la Lega delio-attica, egemone la cosiddetta democratica Atene (la NATO americana) e la Lega peloponnesiaca di Sparta (il russo Patto di Varsavia). I prodromi nella premiership di Pericle che aveva stornato i fondi della lega, versati per la costruzione di navi comuni (nei suoi cantieri) per la costruzione del Partenone. Dal 414 a.C. Siracusa dorica divenne pomo della discordia e protagonista di un’impresa titanica, mettere in ginocchio l’Atene-Usa. Abbiamo già visto le conseguenze nel mio precedente intervento. Caso assai raro quest’anno sono rappresentate due tragedie dello stesso autore, Euripide, che pur con le sue tirate misogine, intitola le sue tragedie con nomi di donne protagoniste. E le motivazioni sono state già dette, il suo acceso e persistente anti-bellicismo, la sua condanna senza attenuanti della guerra, proprio ora in cui l’intera terra esplode in una miriade di guerre, popoli orrendamente martoriati come Afganistan, Siria, Yemen, al di là di ogni efferatezza e bestialità (onore alle bestie che uccidono per fame) di tutti i tempi, tra missili, armi chimiche e torture geniali. E le donne oggi violentate e stuprate, a differenza delle antiche trascinate come schiave e concubine in regie sontuose. La scelta è caduta sulle Troiane, già presenti per tre volte (1952, 1974, 2006) e su Elena prodotta solo nel 1978, perciò ora l’Oscar del 1978, Vanessa Redgrave, riceve al teatro greco di Siracusa l’Eschilo d’oro nella giornata del rifugiato. Allora Lydia Alfonsi Elena, Andrea Bosic Teucro e Gianni Santuccio Menelao. Ho già riportato il brano corale dall’Eretteo (fr- 60 A), quando Ateniesi e Spartani gustarono durante la tregua la dolcezza e il dono della pace e lo ripeto a memoria dei torturatori: «Giaccia la mia lancia, perché l’ordito vi intreccino i ragni e tranquillamente a me si accompagni la canuta vecchiaia: possa io intonare canti adornato il capo canuto di corone, dopo avere appeso il tracio scudo ai talami di Atena cinti di colonne e possa svolgere la voce delle tavolette, dove han fama i sapienti». E ricordo la rivisitazione in chiave patriottica di Quasimodo, Alle fronde dei salici:

«E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.»

Per quanto riguarda cronologia e contestualizzazione rimando alle notizie fornite nel precedente mio intervento in introduzione e preludio. Ora a visione avvenuta occorre trarre le somme e confrontare la progettualità e la realizzazione pratica. Un giudizio sulla performance odierna ripropone la ricorrente polemica sulle rivisitazioni delle opere antiche in allegorie moderne, le cervellotiche e folli letture del teatro greco, uguali e consimili alle attualizzazioni e modernizzazioni di Shakespeare o addirittura alla pura archeologia delle opere liriche. E qui Davide Livermore si è ripetuto alla grande dopo i funambolismi del suo Attila scaligero nel quale ha esercitato le sue paranoie e i suoi thaumasia o mirabilia, coadiuvato da Giò Forma per le scene, D-Wok per i video e Gianluca Falaschi per i costumi. Meno male che c’era alla direzione musicale Riccardo Chailly. Là Attila atemporale diventa l’Hitler del 1945 e per le sue infatuazioni cinematografiche la scena dell’immenso ponte sotto il quale i soldati del flagello di Dio con le proiezioni delle macerie sia di Roma sia di Berlino, compiono omicidi e violenze, esplicite citazioni di “Roma città aperta” di Roberto Rossellini. E sconvolgente il dipinto di Raffaello nel sogno di Attila, e il lussuoso locale di Berlino con le orge del tipo “La caduta degli dei” di Luchino Visconti e di “Il portiere di notte “ di Liliana Cavani, un’atmosfera tenebrosa da horror. Ma è di moda. Qui a parte i soliti soldati bigi da SS, ormai di rito anche a Siracusa (ma anche al Massimo), figure prepotenti e negative, i glaciali efferati nazisti (eppure non dite fascista a Salvini, è antistorico), mi è venuto arduo vedere la scena allagata da uno stagno circolare, con personaggi che guazzavano a mezza gamba e l’Elena, quella vera di Egitto che navigava, seduta su una poltrona a motore, povera infelice, una paraplegica. E quel relitto mezzo affondato trascinato nello stagno su e giù. Certo che i costi diventano esorbitanti se si deve allagare la scena con grande soddisfazione dell’acquedotto comunale. Supremo sberleffo tra teste incipriate e damerini un Teucro reso da Viola Marietti, proprio un’operetta con il solito castrato, senza alcuna idea di cosa fosse una tragedia greca. Non era quella di Shakespeare e sempre si risolveva a lieto fine. Bastava come qui un deus ex machina e tutti vissero felici e contenti, anche se gli indovini dicono il falso e la vita è un sogno. Più tradizionale Muriel Mayette, la prima regista donna a Siracusa, con i suoi tronchi del Bosco morto di Stefano Boeri, gli abeti rossi del Friuli Venezia Giulia, abbattuti dalla tempesta «Vaia» nell’ottobre 2018, e una corifea che canta su dolci motivi. E più compassata la recitazione senza strilli. E la dignitosa Laura Marinoni. Che dire delle scenografie? All’uscita dal Massimo le patite ottuagenarie sanno dire solo, Oh le scene! Anche a Siracusa le scenografie e i costumi sono il cavallo di Troia dei moderni, create per suscitare quanto più stupore. E la musica e il canto? E qui la parola che ha con la recita del mito ammaliato per secoli gli spettatori? Nonostante le odierne montagne di amplificatori, a Siracusa continua ad imperare la recitazione gridata, enfatica e sopra le righe. Penso alla pur bravissima Ecuba-Maddalena Crippa, con la sua voce di baritono, mentre stupendo invece il Taltibio-Paolo Rossi, di lontanissime serate di sbellicante comicità. Le musiche che stordiscono, talvolta serie di rumori in forma di jazz. Qui si sono esibite l’arpa su un isolotto nello stagno e perché non, anche la romantica chitarra. Perciò, come ogni anno, le tragedie greche sono apparse un pretesto per rielaborazioni che tengono conto soltanto di uno spettacolo stupefacente per un pubblico assai eterogeneo per età e cultura. Ripeto. Perché la Lisistrata di Aristofane, rappresentata nel successivo 411 a.C., segue sola soletta a parte, con la sua modernissima parodia sessuale della guerra e con l’adagio, “me la gestisco io”. Si può ritornare due volte nello stesso mese a Siracusa?

 

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