IMMUNITA’ ECCLESIASTICA

(Francesco Paolo Rivera *)

Uno degli istituti giuridici che, nel Settecento, vigevano in Sicilia e particolarmente nella capitale, era quello del così detto “Asilo Sacro” o immunità ecclesiastica, retaggio medioevale, reclamato dalla Chiesa e tollerato dai governi.  La Chiesa aveva sempre preteso il privilegio dell’asilo sacro, che consisteva nel fatto che un reo che volesse sfuggire alla giustizia ordinaria potesse godere dell’immunità riparandosi presso una chiesa. In pratica, bastava che riuscisse a raggiungere un gradino del recinto di una chiesa o toccasse con una mano alla porta o al muro o si appoggiasse con le spalle al fabbricato di una chiesa perché la competenza della giustizia ordinaria passasse a quella ecclesiastica, e il reo godeva così dell’immunità. Addirittura esisteva una specie di regolamento in base al quale si godeva dell’immunità stando entro un circuito di quaranta o di trenta passi (1) da una chiesa (se si trattava rispettivamente di una chiesa maggiore o minore) salvo ad accertare se il reo aveva la possibilità di essere protetto dalla autorità ecclesiastica della sua diocesi o di una diocesi vicina se la propria era, al momento, priva di ordinario. Tale regolamentazione diede origine ad abusi da parte dei delinquenti, ostacolo all’esercizio della giustizia, ma anche aperta ribellione alle leggi divine, ai diritti della   ragione, che al di là dell’esistenza di leggi e di regolamenti, pretendeva la punizione di chi coscientemente e volontariamente avesse commesso dei reati. In Roma esisteva una “Congregazione delle immunità”, il cui compito era quello di evitare gli abusi, tuttavia non si riuscì mai ad arrestare le recriminazioni dei vescovi, le risoluzioni dei cardinali, le bolle pontificie, che spesso favorivano i rei, ledendo l’autorità dello Stato e mettendo in serio pericolo la pubblica sicurezza. In Sicilia molti giureconsulti cercarono vanamente e in tutte le maniere di modificare le controverse norme, ma fortunatamente nel 1740 fu eletto Pontefice Benedetto XIV (il bolognese Prospero Lambertini), il quale ridusse la casistica di applicazione dell’immunità ecclesiastica e a Palermo concesse il divieto di rifugio privilegiato nelle chiese di San Sebastiano e di San Paolo (poi di San Giacomo).La immunità venne accettata “per una cosa ragionevole e legittima, com’è quella di offesa commessa nel calor dell’ira o della rissa, se l’offensore sia stato provocato acerbamente, o in guisa tale che il delitto possa dirsi quasi involontario ed estorto dall’umana fragilità più che dal consiglio ed animo deliberato di nuocere altrui.” Naturalmente ci furono coloro che non trovandosi di accordo con tale interpretazione, anche in campo ecclesiastico, misero in evidenza come, nei suoi eccessi il diritto di asilo dava la possibilità ai malfattori, ai ladri, agli assassini di devastare con sicurezza i beni e la vita dei cittadini, e di turbare la tranquillità pubblica. Le cronache del tempo (2) raccontano parecchi avvenimenti, avvenuti a Palermo, che riguardavano proprio l’abuso del ricorso all’asilo sacro, e che davano dimostrazione tangibile del fatto che spesso, tale privilegio era utilizzato quale àncora di salvezza per i frodatori del denaro pubblico e privato. Eccone alcuni episodi:

– certo Carlo Cento, locatario della “gabella del pesce” (3), nel 1784, fallito per ingente somma, riuscì a evitare la condanna penale inflittagli dal magistrato, rifugiandosi in chiesa assieme al genero, suo fidejussore;

– tale Vincenzo Stroncone, recluso nel carcere della Vicaria, venne scarcerato per ordine del Vicerè e trasferito agli arresti in casa sua, essendo riuscito a  coonestare  (giustificare) una azione delittuosa con motivi falsi;

– la fuga di don Saverio Oneto duca di Sperlinga, nella Chiesa dei Cocchieri, che aveva ucciso un tale – don Michele – che lo aveva provocato,
– la frode, a danno del Senato, del “carbonaio di estrazione nell’arredamento della provvisione del carbone a male della città” (4), Giovanni Cane, il quale vendeva a 14 o 15 tarì la salma (5), il carbone che avrebbe dovuto vendere, al prezzo contingentato, per ordine del Senato, di 12 tarì, e che riuscì a scansare il carcere rifugiandosi in San Domenico.

La cronaca riferisce anche di un certo Giovanni Battista Salerno, il quale, in conseguenza di un reato, per evitare il carcere, si era rifugiato presso una chiesa, ma che trascorsi, in quel sito, oltre cinque anni, implorò il condono al Re, essendo stato colpito da paralisi e non avendo più alcun supporto economico da parte dei suoi familiari, ridottisi sul lastrico. Tuttavia l’osservanza delle condizioni, delle eccezioni e delle riserve di tale privilegio erano estremamente complicate, talvolta il privilegio veniva concesso per ragioni del tutto frivole, per esempio un nobile palermitano (un Conte), dopo due mesi di permanenza nel Convento di S. Francesco li Chiodari (o li Chiuvara) per asilo sacro, volendosi costituire alla giustizia civile, ottenne una salvaguardia della sua persona nel convento medesimo, perché nobile. A questo punto sorge spontaneo nel lettore una qualche “interrogativo” … come trascorreva il suo tempo colui che si avvaleva della ospitalità della struttura ecclesiastica per evitare il peggio, cioè la carcerazione? Si presume – anche se le cronache non ce lo hanno trasmesso – in maniera certamente migliore del trattamento carcerario in uso a quell’epoca. I congiunti, gli amici e – perché no – gli stessi religiosi della struttura religiosa provvedevano a fornirgli i mezzi di sostentamento, sicuramente in proporzione alle possibilità economiche di cui disponevano. Per quanto riguarda, invece, il soddisfacimento dei bisogni fisiologici la procedura era piuttosto elastica. Ovviamente, in quell’epoca il concetto di igiene della persona era molto diverso da quello delle epoche moderne, nelle chiese mancando di servizi igienico-sanitari si utilizzavano, alla bisogna, idonei spazi vicino alla chiesa, tuttavia il reo poteva uscire tutte le volte che ne avesse avuto la necessità, anche più volte al giorno, e durante lo svolgimento di tali funzioni fisiologiche nessuno poteva mettergli le mani addosso. Il m.se di Villabianca pare abbia assistito all’incontro tra un malavitoso, ben noto alle forze dell’ordine e una pattuglia di soldati della Compagnia rusticana di Capitan reale di Palermo, avanti la chiesa del Convento degli Scalzi, ove era andato a rifugiarsi per evitare l’arresto. I soldati, forse anche contrariati per il fatto che il reo, riuscito a sfuggire alla cattura, li avesse beffeggiati, lo bastonarono di santa ragione (e pare che gli abbiano anche dato una coltellata), ma furono condannati, dalla giustizia ordinaria, e dovettero anche farsi “assolvere dalla scomunica” dalla santa chiesa, in quanto il loro intervento, a carico di chi si era cautelato in luogo sacro protetto dalla chiesa, li avesse resi colpevoli di scomunica (6).  Il Vicerè Francesco Maria d’Acquino p.pe di Caramanico, in merito alle interpretazioni spesso abusive del diritto di asilo sacro, nel 1787 emanò una ordinanza: “Quando gli inquisiti prendono l’asilo della chiesa, le Corti Capitanali dovranno osservare la seguente regola: se sono rei di omicidio o di grave ferizione che possa causare la morte, o pure fossero pubblici ladroni o stradarj, o rei di lesa maestà divina ed umana, in primo vel secondo capite, o di dolosa decozione (insolvenza) o di altro qualunque delitto escluso dalla immunità ecclesiastica per l’ultima bolla di Benedetto XIV, esecutoriata in Regno, in tali casi, chiesto il braccio ecclesiastico, si prendano e si carcerino per la Chiesa con l’avvertenza dello spettabile Avvocato fiscale. Tali carcerati non si possono citare, né subire, né restringere sino alla sentenza dell’esclusione dell’immunità, ma si debbono cautelosamente custodire.” Solo se il Vicario del Vescovo non avesse esercitato i suoi poteri o li avesse trattenuti oltre i termini facendo, così, temere la fuga del reo, si sarebbe potuto procedere alla carcerazione dell’inquisito con l’intervento dell’Avvocato fiscale. Naturalmente anche tale normativa, non molto chiara, che – in un certo senso – limitava i poteri della magistratura ordinaria a vantaggio di quella ecclesiastica, avvantaggiava i malavitosi. Fin qui le norme riguardanti i reati commessi dai cittadini delle varie classi sociali, ma quali erano le norme che riguardavano gli ecclesiastici? Se un prete o un chierico avesse commesso un atroce delitto, a norma del Reale rescritto (decreto) del 1777, la Corte Capitale avrebbe intanto provveduto allo svolgimento del processo e all’arresto del colpevole, con l’intervento del Vicario. Si sarebbe esaminato, poi, se il reo avesse portato l’abito talare, perché coloro che rifugiavano in chiesa, non potevano essere intesi se non si presentavano alla Giustizia. La tradizione popolare accennava all’ultima forma della quale pare si sia ridotto il privilegio, con un frase che si riferiva alla ipotetica rovina economica e alla causa continua di un eventuale disastro finanziario che li avrebbe portati al fallimento: “Jennu di sta maniera, vaiu a pigghiu la chiesa di pettu!.” (7) E Giuseppe Pitrè, che fu tra coloro che criticarono il privilegio dell’immunità ecclesiastica, che per tanto tempo fece discutere giudici, vicerè e Capitani di Giustizia, fece notare che lo “asilo sacro” era diventato un gioco di ragazzi. I ragazzi, infatti, solevano fare, generalmente di sera, un gioco (molto simile a quello di guardie e ladri dei nostri tempi): due squadre di fanciulli, una raffigurante i ladri, che si nascondono in un certo posto, e l’altra i gendarmi che avrebbero dovuto catturarli. I primi inseguiti dai gendarmi, fuggivano e si salvavano se raggiungevano una “sbarra” che i ragazzi denominavano “chiesa”. Se i fuggitivi venivano presi dagli inseguitori prima di raggiungere la “chiesa”, andavano sotto e pagavano pegno, altrimenti se riuscivano a toccare la “chiesa” … luogo considerato “immune” … prima di essere catturati erano salvi!

*) Lions Club MilanoGalleria- distretto Ib-4

—-

Note:

  1. Un passo (mt. 1,48) equivaleva a cinque piedi e un piede a quindici dita;
  2. In “Diario inedito del m.se di Villabianca”, in “Archivio comunale di Palermo”, in “Provviste del Senato”;
  3. Era l’esattore dell’imposta a carico dei pescatori;
  4. Tarì era una antica moneta d’argento, e la salma “in dialetto “sarma”, era una misura di capacità che per aridi equivalente a 16 tumoli (in dialetto, “tummini”) e a 20 tumuli (la sarma grossa);
  5. Si presume si trattasse di chi era addetto alla “carbonizzazione” e allo “ammasso” del carbone;
  6. Tale assoluzione, data da uno dei Canonici della Chiesa Metropolitana, Orazio La Torre dei principi La Torre, in pompa magna con mitra in testa e cappa, assistito da due vivandieri o canonici prebendati (erano quelli che avevano la canonica e godevano della prebenda – cioè della rendita) del Duomo, presso la chiesa di Porto Salvo nel largo della Marina, è stata ampiamente descritta nel “diario inedito” dal m.se di Villabianca … fustigazione, con verga di granato, compresa.
  7. Continuando così vado a sbattere contro la chiesa … Di questo passo sarò costretto a correre verso la chiesa! … Prendere di petto la chiesa aveva il significato di ridursi senza un soldo … di fallire!

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Il nostro sito web utilizza i cookie per assicurarti la migliore esperienza di navigazione. Per maggiori informazioni sui cookie e su come controllarne l abilitazione sul browser accedi alla nostra Cookie Policy.

Cookie Policy