IL DIALETTO SICILIANO DAI GRECI AGLI ARABI

Giuseppe Pappalardo

Come hanno influito, sulla formazione del dialetto siciliano, i popoli che hanno abitato la Sicilia dal 750 a. C. all’arrivo dei Normanni? Per rispondere a questa domanda si deve innanzitutto ripercorrere, per sommi capi, la storia della nostra Isola. Nel 750 a. C. iniziò la colonizzazione greca. Questa colonizzazione non va paragonata al colonialismo imperialista europeo. Infatti, grazie ai Greci, in Sicilia fiorirono l’architettura, l’arte, le scienze, la storia, la filosofia, la poesia. La colonizzazione greca fece quindi, nascere una civiltà (quella siceliota); mentre il colonialismo europeo creò schiavitù quando non fece estinguere delle civiltà. Nei successivi sette secoli (dal 242 a.C. al 440 d.C.) la Sicilia fu dominata dai Romani. E la nostra Isola, dopo essere stata illuminata dalla luce greca, fu costretta a vivere all’ombra di una Roma che la ridusse a un’azienda agricola produttrice di grano. Anche quando la Sicilia divenne “provincia” romana, non riuscì a riconquistare il prestigio di cui godeva con i Greci. Tant’è vero che la romanizzazione non ha lasciato vestigia architettoniche di rilievo. Con i Romani non sono sorti né nuovi templi né nuovi teatri, ma solo terme, ville, palestre e ampliamenti di teatri esistenti. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, l’Isola rimase preda dei Vandali di Genserico (476) e, successivamente, degli Ostrogoti di Teodorico (493). Solo a partire dal 533, sotto i bizantini, la Sicilia visse una fase di relativa stabilità. Infatti nel periodo bizantino la nostra Isola, anche se trasformata in distretto militare, riuscì a mantenere una centralità nel Mediterraneo. Nei secoli dal 827 al 1061 si ebbe la lunga e variegata dominazione araba. Lunga perché gli arabi sbarcarono a Mazara nel 827; Palermo cadde nel 831 (dopo 4 anni); Siracusa, nel 878 (dopo 51 anni); Rometta, ultimo bastione della resistenza bizantina, cadde nel 965. Quindi gli Arabi, per controllare tutta la Sicilia, impiegarono ben 138 anni. Variegata perché il controllo dell’Isola da parte degli Arabi non fu mai omogeneo. Infatti il Val di Mazara (TP, PA, AG) fu tutto islamizzato; il Val Demone (ME, CT) rimase a maggioranza cristiana; il Val di Noto (RG, SR) assunse una configurazione intermedia.    Ciò premesso, segnalo una parola che, da sola, testimonia la presenza in Sicilia di greci, latini e arabi. È il nome dell’albicocca. Questa parola assume forme diverse a seconda della zona della Sicilia in cui è usata, ma le sue varianti hanno origine, tutte, dal greco praikòkion. La parola greca si spostò verso la latinità per diventare praecòquum. La parola latina scese nella Sicilia orientale e diventò pircocu (varianti: piricocu, pricocu, etc.). Ma praikòkion andò anche in Tunisia e divenne barqùq. E la parola araba barqùq si spostò nella Sicilia occidentale per diventare varcocu (con varianti vraccucu, barcocu, etc.). Passiamo ora alla storia linguistica della Sicilia. Prima del 750 a. C. cioè nella preistoria, gli abitanti parlavano le lingue anelleniche: il sicano, il siculo, l’elimo e altre lingue minori come il punico. Con l’ellenizzazione in Sicilia entrò la lingua greca e diventò presto lingua colta parlata e scritta. Le lingue anelleniche rimasero tuttavia vive nella parlata dei siciliani. Il greco resisterà fino al periodo dei Normanni, escludendo il periodo arabo. E con i bizantini il greco prevarrà sul latino per quanto riguarda l’amministrazione, le attività intellettuali e i riti religiosi. Il lungo sopravvivere del greco non aiuta i linguisti, oggi, a capire quali parole del siciliano derivano dal greco delle antiche colonie e quali dal greco dei bizantini. È certo che il greco antico ci ha lasciato parole come:

cantàru = misura di peso (100 kg); dal greco kentenàrion.

strùmmula = trottola, da stròmbos.

naca = culla; da nakè.

Invece dal greco dei bizantini ci sono arrivate parole come:

zìmmaru = maschio della capra (dal greco chìmaros).

putìmisi = diritto di prelazione del confinante (dal bizantino protìmesis).

paraspolu = piccolo appezzamento di terreno ceduto al fattore affinché lo coltivi in proprio (dal bizantino paraspòrios).

Queste ultime tre parole sono usate nella zona nord-orientale (ME) della Sicilia, ma sono del tutto sconosciute in altre zone dell’Isola.

Dopo i Greci la Sicilia è stata romanizzata. E nell’Isola si sono avute due romanizzazioni. La prima, nei sette secoli dal 242 a.C. al 440 d.C. La seconda, la neo-romanizzazione, nei due secoli normanno-svevi (dal 1061 al 1268). Questo ampio lasso di tempo (ben 9 secoli) ha determinato una profonda latinizzazione del dialetto; per cui oggi diciamo che il siciliano è un «dialetto di tipo neolatino». Innumerevoli sono le parole del siciliano che hanno radici nella lingua latina. Ne cito solo qualcuna:

da quartus                    quartara              (recipiente di terracotta)

da hodie est annum                oggellannu          (l’anno scorso)

da ante horam               antura                  (poco fa)

da soror                            soru                          (sorella)

Passiamo infine al periodo arabo. Da notare che i cosiddetti “arabi” di Sicilia non erano popoli provenienti dall’odierna Arabia Saudita ma da Paesi del Maghreb (la Tunisia in particolare). Quello arabo fu, per i siciliani, un periodo di benessere ma anche di vessazioni a causa della diversa religione fra musulmani e cristiani. Dalla lingua araba derivano parole come:

giarra = grande recipiente di terracotta; dall’arabo ģarra.

sfìncia = frittella di pasta dolce; da un isfang arabo derivante dal latino spòngia.

taliàri = guardare, osservare; dall’arabo talāyi (sentinella) e, poi, dal catalano talaiar.

Non posso sottacere di errori commessi anche da grandi arabisti nel riportare molte parole all’etimo arabo. Michele Amari, ad esempio, faceva derivare la parola siciliana cassata all’etimo qas’at (che in arabo significa scodella). Studi più recenti ci dicono invece che cassata deriva dal latino caseus (formaggio). Dopo la dominazione araba sono sopravvenuti i periodi normanno-svevo, catalano-aragonese, spagnolo. Perciò il dialetto siciliano risente del contatto con i sistemi linguistici di questi popoli. Il risultato finale di quanto ho detto è che il dialetto siciliano è una lingua composta di varietà locali diverse – e talvolta molto diverse – fra loro. La diversità dipende dal grado di infiltrazione dei popoli dominanti nelle diverse zone geolinguistiche della Sicilia. E tale diversità non riguarda solo la pronuncia ma anche molte parole. Abbiamo detto prima che l’albicocca si chiama pircocu in alcune zone della Sicilia e varcocu in altre. Le parole pircocu e varcocu sono sinomini perché hanno lo stesso significato, ma non vengono usate l’una o l’altra indifferentemente. Ad esempio un catanese non chiamerà mai varcocu l’albicocca e un palermitano non la chiamerà mai pircocu. E di questi casi ce ne sono a centinaia. Per riassumere e concludere, quello che oggi noi chiamiamo comunemente «dialetto siciliano» è un sistema linguistico composto da micro-sistemi locali. Questi micro-sistemi linguistici trovano nel latino il denominatore comune; per questo motivo un parlante siciliano che vive in una zona della Sicilia riesce più o meno a capirsi con i parlanti di altre zone. Ma non esiste un solo dialetto parlato. Esistono invece più parlate dialettali. Per quanto attiene al dialetto scritto, in genere i poeti si rifanno al dialetto di Giovanni Meli, palermitano. Detti poeti si rifanno, quindi, a un dialetto della zona occidentale. Non si può ignorare, però, che in Sicilia non è mai avvenuto ciò che avvenne nel Medioevo per la lingua italiana. L’italiano si formò perché il volgare fiorentino prevalse sugli altri. In Sicilia, invece, nessuna varietà di dialetto ha mai prevalso sulle altre. A questo punto ci si deve chiedere: chi può obbligare un poeta ragusano a scrivere come scriveva il palermitano Meli? E viceversa: chi può obbligare un poeta palermitano a scrivere come scriveva Vann’Antò, poeta del ragusano? La conclusione logica è che non esiste un dialetto siciliano unico, né parlato né scritto. C’è comunque da aggiungere che la presenza di tanti sottosistemi locali, da un punto di vista linguistico, non costituisce un problema ma una ricchezza. Il problema è invece che il dialetto siciliano, nel tempo, è stato penalizzato e svalutato. Oggi la sensibilità della Scuola e delle Istituzioni è cambiata. E io spero che questo cambio di rotta, a livello sia didattico che legislativo, produca buoni frutti. Ci sono in gioco la cultura e le tradizioni della Sicilia! Infatti, se si perde il dialetto siciliano, si perde quel ricco patrimonio immateriale che la Sicilia possiede e che è composto da: poesie, racconti, testi teatrali, testi di canzoni, indovinelli, proverbi, modi di dire, etc. scritti/tramandati in dialetto. E, questo, è un disastro assolutamente da evitare!

 

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