L’UOMO DELLA FERMATA

( Aurora D’Amico)

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Una coppola di lana poggiata sul capo e dei mocassini marroni risalenti al secolo scorso. Erano questi i due segni che lo caratterizzavano. Lui, che stava seduto alla fermata dell’autobus per ore, osservava in silenzio la gente che gli passava davanti. Non so quale fosse il suo nome, ma in funzione di questa storia penso che lo chiamerò Alfred.

Alfred è un anziano signore che abita nel mio quartiere. Cammina curvo sulla sua schiena, tenendo aperte le gambe, come per bilanciare il peso del suo gracile corpo. È solito trascorrere più o meno tutte le sue giornate seduto alla fermata dell’autobus: i veicoli pubblici gli passano davanti uno dopo l’altro, ma Alfred resta al suo posto.

 

“Deve salire?” gli chiede l’autista.

“No, grazie” risponde lui, con espressione rilassata.

Le porte si chiudono e l’autobus riparte con il suo solito andamento.Riesco a vederlo dalla finestra del mio salotto e come ogni giorno prometto a me stesso di andare a parlargli. Ma poi il cellulare nella mia tasca sinistra inizia a vibrare e devo correre in ufficio. Io sono un reporter e anche se il mio sogno era in realtà diventare uno scrittore di romanzi thriller, sono diversi anni che lavoro per un piccolo giornale locale, con la speranza di riscuotere in futuro un po’ più di successo. È domenica e solitamente questo è il giorno della settimana che preferisco trascorrere fuori città, per riposare la mente e trovare nuove idee. Ma fa troppo caldo per uscire di casa; così accendo la tv, mi corico sul divano e ogni volta che appare sullo schermo uno spot commerciale, ne approfitto per prendere qualcosa in cucina. Durante il tragitto, però, il mio occhio cade su quella fermata dell’autobus e, ovviamente, su Alfred. Per me questa è la volta buona: in meno di un minuto scendo le scale del palazzo e arrivo per strada, posizionandomi davanti alla fermata.

“Posso?” gli chiedo, indicando il posto accanto al suo.

Alfred mi fa cenno di “si” con la testa e io mi accascio accanto a lui, riflettendo sul modo migliore per iniziare una conversazione.

“Che autobus sta aspettando?” domando con indifferenza.

“Oh, nessuno veramente” mi sorride e torna a fissare la strada.

Chiaro e conciso, penso tra me. Non so che altro aggiungere e per un attimo cala un silenzio imbarazzante.

“Lei quale autobus sta aspettando, giovanotto?” mi domanda all’improvviso.

“Nessuno nemmeno io.”

“Curioso…” lo sento appena sussurrare.

“Perché? È la stessa cosa che sta facendo lei.”

“Ha un lavoro, giovanotto?”

“Si, sono un giornalista.”

“E ha anche una famiglia?”

“I miei vivono a qualche chilometro di distanza, così come la ragazza che sposerò a breve.”

“Allora perché è qui?”

Quelle domande e quello sguardo, puntatomi addosso con così tanto vigore, mi stanno intimidendo, ma faccio di tutto per non apparire tale.

“Mi dica lei perché è qui!”

“Perché io non ho più un lavoro, non ho dei genitori da anni e ormai non ho nemmeno una moglie.”

Rimango in silenzio, cercando di immaginare il resto della storia.

“Quindi, non mi resta che aspettare un ultimo autobus.”

“Non capisco: cosa intende?”

“Strano, mi sembravi un giornalista sveglio. Si vede che dovrò essere più esplicito: per che cosa stai vivendo? Io ho vissuto mettendo al primo posto la famiglia e il lavoro” fece una pausa, come per deglutire e poi aggiunse: “E adesso non mi rimane che una casa vuota e una pensione che va diminuendo coi tempi. Quindi: per che cosa ho vissuto?” Quel pomeriggio mi disse che c’era qualcosa di più grande per cui andava la pena vivere, ma non era riuscito a dirmi cosa. Si trattava di una risposta che aveva trovato ma che non voleva del tutto accettare, sebbene la ritenesse corretta. Oggi guardo fuori della finestra quella panchina ormai vuota: scendo le scale con la mia ventiquattrore e mi siedo al suo posto, senza più sapere quale autobus io debba prendere.

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